Sopa de frijoles negros

Anche gennaio se n’è andato lasciandoci con i famigerati 3 Giorni della Merla, conosciuti come i più freddi dell’anno e tutti abbiamo pensato a minestre, zuppe e vellutate perché l’inverno invita a consumare questi deliziosi piatti che scaldano e confortano e aiutano a sopportare queste gelide serate.
E se la nostra minestra di oggi fosse “calda” non solo per la temperatura a cui viene servita, ma per il peperoncino e le spezie con cui è cucinata? E se lo fosse anche perché le sue origini sono caraibiche e la sua terra di provenienza la patria della salsa? Non la salsa di pomodoro, ma quella cubana?
Ecco la Sopa de frijoles negros, la Zuppa di fagioli neri: deliziosa, sensuale, calda e avvolgente come un ritmo latino-americano.

20150129-001314.jpgFaccio stufare a fuoco lentissimo con 2 cucchiai di olio di oliva: 1 carota, 2 gambi di sedano, 1 grossa cipolla e 1/2 peperone rosso tagliati a cubetti e 1 spicchio d’aglio tritato.
Quando queste verdure sono tutte appassite e la cipolla è trasparente, aggiungo 3 barattoli di fagioli neri scolati e sciacquati e circa 1 litro di brodo vegetale. Frullo tutto finché la preparazione non diventa omogenea.
Aggiungo un’altra lattina di fagioli neri, scolati e lasciati interi e insaporisco con il succo di 1 lime, 2 cucchiaini di chili in polvere, 1/2 cucchiaino di peperoncino in polvere, 1/2 cucchiaino di cumino, 1/2 cucchiaino di sale.
Porto tutto a ebollizione, poi abbasso la fiamma al minimo e lascio cuocere a fuoco dolce col coperchio per un’oretta.
La zuppa dovrà addensarsi e presentarsi come una vellutata.
La servo caldissima nelle ciotole che condisco con 1 cucchiaiata di panna acida e decoro con 1 foglia di prezzemolo.
A parte passo le tortillas di mais scaldate in forno.

È una straordinaria minestra di origine Cubana, che dà una sensazione connessa al piacere dei sensi, come i balli caraibici…

Uno dei “4 sughi”: quello di piselli

Quando vengono a pranzo i ragazzi a volte faccio solo l’antipasto e la pasta.
“Solo” la pasta significa che cucino sì un unico tipo di pasta, ma al centro della tavola posiziono un vassoio girevole sul quale trovano posto diversi tipi di sughi per condirla.
È lo stesso sistema che adottano quelle tipiche trattorie Veronesi di vecchia tradizione e di sostanza che ogni tanto cito.
Uno dei primi piatti più tipici della nostra cucina sono infatti le “lasagnette coi quattro sughi” che sono invariabilmente il ragù di carne, quello di fegatini, il sugo di piselli (o di un altro ortaggio si stagione, a volte) e quello di pomodoro.
In famiglia però le combinazioni sono spesso differenti e solitamente la scelta è anche più ampia. L’ultima volta per esempio c’erano in tavola 6 sughi diversi tra cui una variante col pomodoro del sugo di piselli, che invece in genere è bianco.
E le mie lasagnette le ho condite così.

20141210-011818.jpgSi soffrigge dolcemente 1 piccola cipolla tritata in olio e burro.
Si aggiunge un barattolo di passata fine di pomodoro, 1/2 cucchiaino di sale grosso e 1 cucchiaino raso di zucchero.
Si lascia sobbollire piano per una ventina di minuti mescolando con un cucchiaio di legno.
Quando la salsa di pomodoro è bella densa e corposa si aggiungono 400 gr di piselli freschi o surgelati, oppure un barattolo di piselli medi di una buona marca, scolati e sciacquati.
Si mescola, si spolverizza di pepe bianco e si sala appena.
Si procede alla cottura a tegame coperto.
Cito ancora una volta mia nonna Virginia, infallibile nelle cose di cucina, per precisare che il sugo è pronto quando il grasso diventa trasparente e passando il cucchiaio di legno tra il sugo e le pareti del tegame si sente un inconfondibile sfrigolio. Per essere certi che sia cotto a puntino insomma “bisogna sentirlo cantare”.
Grazie nonna, non non ho mai sbagliato una cottura!

Ecco, questo è dunque uno dei sughi che ho portato in tavola l’ultima volta insieme agli altri cinque per una “pasta” davvero varia e golosa.
Credetemi, è un modo divertente e molto conviviale di mangiarla in famiglia, ma anche con gli amici. Si ruota il vassoio oppure ci si passano le ciotole o le salsiere e ci si serve del sugo preferito oppure si azzardano combinazioni di fantasia.
A parte si passa il parmigiano grattugiato.

La mia Amatriciana

20150120-013219.jpgLa ricetta di oggi solleverà qualche critica ed è proprio per questo che la definisco la MIA amatriciana, in quanto non rispetta le ferree regole che governano la cucina regionale ma è una squisita pasta che semplicemente trae ispirazione dall’originale.
Passo a descrivervi le differenze tra la ricetta originale e la mia versione.
Primo: all’ingresso di Amatrice, la cittadina che ha dato origine a questo piatto ormai di fama internazionale c’è un cartello che informa che si tratta della città degli Spaghetti all’Amatriciana.
Io con questo sugo condisco invece i bucatini, che compro unicamente proprio per cucinare questo piatto.
Secondo: la vera Amatriciana (o Matriciana) non prevede l’uso della cipolla, ma solo dell’aglio.
Io invece faccio appassire con il grasso rilasciato dal guanciale anche della cipolla bianca affettata a velo, prima di aggiungere i pomodori.
Terzo: aggiungo il prezzemolo, mentre di questa aggiunta non si fa menzione in nessuna ricetta tradizionale.
Quarto: pare sia tassativo l’uso del pecorino romano per insaporire la pasta una volta condita.
Io preferisco invece miscelare pecorino e parmigiano per ottenere un sapore meno deciso. Faccio lo stesso quando preparo il pesto, ma che resti fra noi perché non vorrei inimicarmi anche i Genovesi, oltre a mettermi a litigare con i Romani, che hanno fatto loro questa ricetta.
In realtà gli è stata invece regalata dai pastori della zona a cavallo tra la provincia di Rieti e l’Abruzzo, che grazie alla transumanza attraverso le campagne romane, l’hanno portata nella capitale.
Comunque, se siete interessati alle mie varianti, vi dico subito come faccio la mia Amatriciana.

Taglio il guanciale a listarelle, mi raccomando non a cubetti perché così resta più morbido, e lo faccio rosolare a fuoco vivace con 2 cucchiai di olio, 1 spicchio d’aglio e 1 peperoncino.
Lo sfumo con il vino bianco, lo scolo dalla padella e lo tengo da parte coperto di carta stagnola.
Verso nella padella 1/2 cipolla bianca affettata sottile e la faccio lentamente rosolare. Aggiungo 1 scatola di pelati sgocciolati e tagliati a filetti e li faccio consumare.
Elimino l’aglio e il peperoncino, rimetto il guanciale nella padella, aggiusto di sale, insaporisco con una generosa macinata di pepe e condisco i bucatini, scolati al dente, aggiungendo anche il formaggio grattugiato che aiuta la pasta a trattenere il sugo.
Cospargo di prezzemolo tritato, mescolo e servo.
A parte passo altro formaggio, il macinapepe e il peperoncino in polvere.

Nonostante questa non sia la ricetta originale e abbia subito diverse contaminazioni, devo dire che in famiglia ha sempre un gran successo.

Cosce di tacchino in salsa aromatica

Durante un viaggio in Provenza alla ricerca dei soliti mercatini di brocantage, una volta abbiamo pranzato nel borgo medievale di Grasse.
Grasse è uno di quei deliziosi “villages perchés” alle spalle della Costa Azzurra, i villaggi fortificati, arroccati sulle colline, cinti da mura imponenti, ricchi di scalinate, fontane e passaggi a volta che costituiscono una delle più suggestive attrattive della Provenza medievale.
Dopo aver visitato il Musée Provençal du Costume et de Bijoux e quello di Jean-Honoré Fragonard, pittore che è stato uno dei più importanti esponenti del rococò, ci siamo fermati anche alla Maison Molinard e abbiamo creato, con l’aiuto di un “naso”, una fragranza personalizzata che un a volta a casa però non mi piaceva più…
Ricordo che abbiamo mangiato un’indimenticabile Cuisse de dinde, coscia di tacchino deliziosamente ricca di erbe e aromi che a casa rifaccio in un modo che ricorda molto quei sapori.

20141215-191607.jpgPer sicurezza si fiammeggiano con il cannello per caramellare, oppure direttamente sulla fiamma del gas, 2 cosce di tacchino e 2 sovracosce. Si sciacquano e si praticano dei tagli con la punta di un coltello affilato perché il condimento penetri meglio all’interno della carne.
Si prepara un trito classico con 1 cipolla, 1 gambo di sedano e 1 carota, si aggiungono 2 scalogni affettati sottili e si fa soffriggere con un battuto di 70 gr di lardo e 2 cucchiai di olio.
Si frullano intanto 1 spicchio d’aglio, gli aghi di 1 rametto di rosmarino, 2 foglie di salvia, le foglioline di 1 rametto di timo, 1 foglia secca di alloro, 2-3 bacche di ginepro, 2 chiodi di garofano, una grattugiata di noce moscata e 1 pezzetto di stecca di cannella.
Si uniscono 1/2 cucchiaino di sale e un’abbondante grattugiata di pepe fresco e con questo composto ben amalgamato si massaggia con cura il tacchino.
Si accomodano i 4 pezzi nel tegame col soffritto e si fanno rosolare. Si sfumano con 1 bicchierino di grappa, si aggiunge 1 mestolo di brodo e si cuociono a fuoco medio, col coperchio, rigirandoli ogni tanto.
Passata la prima mezz’ora, si aggiunge 1 bicchierino di Marsala. Quando è evaporato si uniscono 200 ml di panna da cucina e si prosegue la cottura a tegame scoperto.
Ci vorrà ancora una ventina di minuti. Per essere sicuri che sia cotto alla perfezione, si infila uno stuzzicadenti nella parte più carnosa della coscia e se entra con facilità ci siamo.
Si filtra il sugo con un colino e si serve a parte.

In Provenza anziché con la grappa, queste cosce di tacchino vengono sfumate con il Pastis, ma deve piacere l’inconfondibile profumo di anice.

Ragù di petto d’anatra

In queste settimane che precedono il Natale è facile trovare sui banchi delle macellerie carni che normalmente non si vedono e trarre nuovi spunti per preparare piatti molto interessanti e spesso dimenticati.
La prozia Margherita, cognata di mia nonna Emma e le mogli di quei cugini del mio papà di cui racconto nel capitolo “Pelle d’oca e zampe di gallina” del mio libro, cucinavano dei veri piatti rinascimentali pieni di profumi con cotture lente ed elaborate, ingredienti autoctoni e grande tradizione.
Da bambina una volta l’anno andavamo a trovarli in questa massiccia e solida casa padronale al centro di una corte circondata dalle abitazioni dei contadini, le stalle, il fienile e una grande aia dove razzolavano polli, anatre e oche.
A pranzo ci offrivano vassoi di pasta fatta in casa e arrosti dai sughi densi, che profumavano intensamente di erbe aromatiche, vino, passione e saggezza.
Allora non gradivo quei sapori e quegli ingredienti, ma non li ho mai dimenticati. Nel mio libro infatti descrivo con fierezza e nostalgia i metodi di cottura e i segreti della preparazione di questi antichi piatti di famiglia.
Oggi però, per mille motivi, non preparerei più un ragù d’anatra allo stesso modo, ma con due petti che il macellaio mi ha passato al tritacarne una sola volta, ho cucinato un sugo molto invitante.

20141211-192542.jpgSi fa appassire a fuoco dolce in olio e burro il solito abbondante misto da soffritto (carota, sedano e cipolla).
Quando il trito sarà consumato, si uniscono 1 foglia di alloro e gli aghi di un rametto di rosmarino tritato.
Si aggiunge la carne e si fa rosolare alzando la fiamma e mescolando perché non si attacchi.
Si sfuma con 1/2 bicchiere di vino rosso importante, io per esempio uso l’Amarone, ma si può scegliere un qualunque altro importante vino della propria zona.
Quando è completamente evaporato si aggiungono una tazza di passata di pomodoro, 1 cucchiaio di doppio concentrato e un mestolo di brodo, si aggiusta di sale e pepe e si porta a cottura mescolando di tanto in tanto.
Si condisce la pasta e si completa con abbondante grana grattugiato.

Se avessi avuto i bigoli, sarebbero stati la morte sua, ma ho rimediato con dei vermicelli, più grossi e corposi degli spaghetti che hanno fatto la loro ottima figura.

Risotto allo Champagne

Oggi farei l’ormai tradizionale tuffo periodico negli anni dell’Edonismo Reaganiano, delle Discoteche esclusive, degli Yuppy che soppiantavano gli Hippy, delle frivolezze esteriori. In concreto: negli anni Ottanta, quando era meno importante essere che mostrare.
A quei tempi era d’obbligo ostentare una certa finezza aristocratica aggiungendo ad un semplice risotto alla Parmigiana, mezza bottiglia di Champagne e offrirlo dopo la mezzanotte a conclusione di un veglione o di una festa.
Si tratta infatti di un piatto che fa molta scena, è leggermente afrodisiaco, velocissimo da preparare con ingredienti semplici e con un sapore delicato ma deciso.
Ricordo certe serate che finivano alle ore piccole con in mano un piatto di plastica (già un po’ deformato) ricolmo di riso leggermente scotto, ma rigorosamente allo Champagne… oppure a volte al gorgonzola.

20141109-015003.jpgSi parte col tritare una piccola cipolla e farla imbiondire con 50 gr di burro, quindi si versano nella casseruola 300 gr di riso facendolo insaporire per qualche minuto rimestando col cucchiaio di legno per evitare che si attacchi sul fondo.
Si bagna quindi con un bicchiere di Champagne e si lascia evaporare a fuoco vivace.
Quando il vino si è asciugato, si versa 1/2 litro di brodo e di lascia assorbire dal riso a fuoco dolce.
Si unisce poi un altro bicchiere di Champagne e si porta a cottura.
Fuori dal fuoco si aggiungono 100 ml di panna e 50 gr di parmigiano grattugiato e si manteca dolcemente. Si serve subito con una flûte dello stesso Champagne usato per preparare il risotto.

Un ottimo risotto “allo Champagne” si può fare anche con un aromatico Satèn Brut Franciacorta o un eccellente Prosecco Vadobbiadene Millesimato Dry, magari avanzato per esempio da un aperitivo della sera precedente, anche se così si modernizza un po’ la preparazione e non si rispetta la tradizione, decisamente datata, della mia giovinezza.

… e le Penne alla Boscaiola allora?!

Mi piace questa cosa che di tanto in tanto facciamo un tuffo indietro nei mitici Anni Settanta e Ottanta! E a voi?
Laura (laurarosa3892.wordpress.com) qualche settimana fa ci ha dato uno splendido esempio di revival consentendoci di immergerci nella Musica che si ascoltava e si ballava allora.
Come sempre io darò invece il mio contributo a quel periodo con una ricetta.
Pensavo alle Penne alla Boscaiola questa volta, altro caposaldo dei primi piatti conditi, oltre che con vari ingredienti, con l’immancabile panna, baluardo della cucina di quegli anni.
Come sempre per ogni famiglia che cucina questo piatto c’è una ricetta che più o meno si somiglia, ma con qualche piccola variante.
Questa che vi do è la mia. Mi farebbe piacere se mi raccontaste la vostra, naturalmente.
È il classico sugo che si preparava nel tempo in cui cuocevano le penne, quindi perfetto nel periodo in cui lavoravo a tempo pieno fuori casa e i momenti da dedicare alla cucina erano limitati.
Per non far mancare alla famiglia il conforto di un piatto ricco e cremoso, che dava anche l’impressione di un discreto impegno, quello alla boscaiola era un sugo perfetto.

20141104-101735.jpgIn una padella che possa poi contenere anche la pasta, si fa rosolare 1/2 cipolla tritata con 2-3 cucchiai di olio. Si aggiungono 100 gr di pancetta affumicata tagliata a cubetti e 150 gr di salsiccia sbriciolata.
Si sfuma con 1/2 bicchiere di vino e quando è evaporato si uniscono 300 gr di funghi champignon affettati e 30 gr di porcini secchi, fatti rinvenire in acqua tiepida, tagliuzzati.
Si lascia sul fuoco, mescolando occasionalmente finché la pasta non è cotta, quindi si scola, si versa nella padella del sugo, si aggiungono alcuni cucchiai di panna e abbondante formaggio grana grattugiato, si aggiusta di sale e pepe e si fa saltare finché tutto non è ben amalgamato.
Si spolverizza di prezzemolo e si serve.

Questo lo so anch’io: c’è chi aggiunge i piselli, chi le olive, chi la passata o i filetti di pomodoro, chi mette solo la pancetta, chi solo la salsiccia, chi sfuma col vino bianco, chi con quello rosso. Hanno ragione tutti, ovviamente.
Però la mia versione è la più attendibile perché è cucinata con ingredienti che, se ci pensate, sono tutti tipici e reperibili nelle zone montane dove si presume vivano i boscaioli, dunque…

Maccheroncini alla Cubana, questi sconosciuti

Ve lo ricordate quando la settimana scorsa ho pubblicato il risotto al nero di seppia? Era il 31 ottobre.
Dato che come sempre non mi sono limitata ad esporre la ricetta ma ho fatto al post il solito “cappello” di vita vissuta, ho accennato a due di quelli che negli anni Settanta erano i must in fatto di primi piatti citando i Maccheroncini alla Cubana e il Risotto allo Champagne.
Oltre a queste due pietre miliari della cucina del boom economico, a quell’epoca si portavano in tavola i tortellini alla panna, le pennette alla Vodka, le tagliatelle panna e prosciutto, il già nominato risotto allo Champagne e quello con le fragole.
Erano questi i primi piatti speciali dei miei primi anni di matrimonio, delle cene con gli amici, degli inviti ai genitori, piatti che molti di voi non conoscono, come dimostra la curiosità manifestata nei confronti dei maccheroncini di oggi, dove per maccheroncini si intendono anche le pipe rigate, i sedani o le mezze penne.
Accontento volentieri quanti hanno chiesto di saperne di più sperando di non deluderli con una ricetta tutto sommato senza tante pretese, che a me è piaciuto comunque preparare… in ricordo dei bei tempi andati, quelli della mia giovinezza.20141031-214113.jpgSi trita una cipolla e si fa imbiondire in un tegame con 2-3 cucchiai di olio, 1 peperoncino e 1 spicchio d’aglio.
Si aggiungono 300 gr di funghi champignon affettati piuttosto sottili e si fanno cuocere finché non si è asciugata la loro acqua di vegetazione.
Si uniscono adesso 100 gr di prosciutto cotto in una sola fetta tagliato a cubetti, qualche cucchiaiata di passata di pomodoro e una confezione di panna da cucina.
Si amalgama tutto insieme, si insaporisce con una grattata di pepe e fuori dal fuoco si completa con 1 cucchiaio di prezzemolo tritato e abbondante parmigiano grattugiato.
Si scolano al dente 300 gr di pasta corta e si ripassano nel tegame con il sugo che deve risultare cremoso ma non troppo fluido.
Volendo si aggiunge ancora un pizzico di peperoncino in polvere.

Tutto qua. Questa è la semplice ricetta dei Maccheroncini alla Cubana. Niente di speciale, d’accordo, ma fa parte delle ricette che da mio nipote per esempio, quando sarà grande, potranno essere considerate una sorta di “modernariato” da accostare a quelle antiche e tradizionali delle mie nonne.

Riso al nero di seppia

Per quanto mi piace il riso, in una vita precedente potrei essere stata un’asiatica.
Ora, individuare proprio esattamente il Paese in cui sarei potuta nascere mi risulta un po’ difficile, ma sicuramente l’Oriente deve essere la mia culla ancestrale.
Il primo “manicaretto” che ho preparato a mio marito appena tornati dalla Luna di miele è stato un risotto copiato dal numero di Aprile 1969 de La Cucina Italiana, ma mi sa che non è stato un gran successo. Dopo però sono migliorata.
Giusto per restare in tema Anni Settanta, ve lo ricordate che se si faceva una pasta alla buona con gli amici andavano alla grande i Maccheroncini alla Cubana, mentre se si voleva fare i fighi, si cucinava il risotto allo Champagne?
Ricette vintage, quelle della mia giovinezza!
Un riso invece che non si dovrebbe mai preparare quando si hanno ospiti, per oggettivi motivi estetici, è quello al nero di seppia.
Sapete cosa vi dico? È talmente buono che vi suggerisco di farlo solo per gli intimi, così come faccio io, e godervelo nonostante l’inevitabile bizzarra colorazione che assumeranno temporaneamente i vostri denti, come quella di certe donne di etnia Nord Vietnamita che nel loro Paese sono considerate molto belle.

20141022-141237.jpgSi puliscono, si liberano degli occhi, il becco e le interiora, si privano dei sacchetti dell’inchiostro, che si mettono da parte senza romperli, si toglie la pelle e si sciacquano bene sotto l’acqua corrente 1 kg di seppie.
Si fa un soffritto con 1 bella cipolla tritata, 1 spicchio d’aglio che andrà tolto quando sarà dorato e qualche cucchiaiata d’olio.
Si uniscono le seppie tagliate a listarelle e i tentacoli a pezzetti, si fanno soffriggere con un trito di prezzemolo e dopo qualche minuto, quando saranno rosolate, si spruzzano con 1/2 bicchiere di vino bianco.
Una volta evaporato si incorpora l’inchiostro tenuto da parte, si incoperchia e si cuoce a fuoco dolce per almeno una ventina di minuti: le seppie devono risultare morbide.
Si versano adesso a pioggia 300 gr di riso, si amalgamano alle seppie e si aggiungono un paio di mestoli di brodo.
Si incorpora una tazzina di passata di pomodoro e poco alla volta circa 1/2 litro di brodo aggiungendone a mano a mano che il riso si asciuga.
A cottura ultimata, fuori dal fuoco si aggiungono una noce di burro e abbondante pepe nero appena macinato, mantecando bene.

A chi non l’ha mai assaggiato, questo insolito risotto nero, che non è a base di riso Venere, può suscitare una certa diffidenza.
Dopo il primo assaggio, però, ogni perplessità scompare perché ha un gusto eccellente.
E poi non lo trovare anche voi abbastanza “mostruoso” da essere adatto a questa vigilia di Halloween?!

La Carbonada di filetto

Quando avevo il negozio, cioè fino al 2000, ero concessionaria anche di alcuni prestigiosi marchi di orologi, quindi una volta l’anno andavamo all’esposizione delle eccellenze Svizzere in fatto di orologeria che si tiene in aprile a Ginevra, per visionare le novità e fare un programma di acquisti.
Per raggiungere Ginevra si attraversa la Valle d’Aosta, si imbocca il Traforo del monte Bianco e dopo un breve tratto in territorio Francese si entra in Svizzera.
Mi pare fino al 1994 non era ancora stato completato il raccordo autostradale e si doveva quindi necessariamente attraversare la città di “Augusta Pretoria”.
Quindi ci fermavamo a pranzo nel centro storico di questa colonia militare fondata dai Romani nel 25 a.C. e ancora oggi considerata la “Roma delle Alpi”, per i numerosi monumenti augustei tuttora presenti.
Per qualche anno dunque per raggiungere il prestigioso Salon International de la Haute Horlogerie ci siamo fermati ad assaggiare le specialità di una eccellente cucina semplice e rustica, spesso a base di polenta, tipica della Valle d’Aosta.
Uno dei miei piatti preferiti era la Carbonada di filetto.

20140916-012933.jpg
Non è difficile replicare la ricetta e il risultato è eccellente, il sapore robusto, il profumo stuzzicante.
Ogni tanto la preparo, in ricordo dei vecchi tempi!

Trito 1 carota e 1 gambo di sedano, taglio a grossi pezzi 2 scalogni e li faccio bollire piano con qualche grano di pepe, 1 pizzico di sale, 2 bacche di ginepro e 2 chiodi di garofano in 1/2 litro di vino rosso fino ad ottenere una salsa piuttosto densa e profumata.
Trito grossolanamente anche 1 cipolla e la faccio stufare a fuoco molto dolce con due cucchiai di olio e un pizzico di sale. La aggiungo alla salsa al vino.
Faccio saltare in padella 4 filetti di manzo con circa 30 gr di burro insieme a 1 rametto di rosmarino e 1 spicchio d’aglio, li salo e li pepo abbondantemente. Raggiunto il grado di cottura preferito, elimino gli odori e verso nella padella la salsa al vino.
Scaldo tutto rapidamente e appoggio ciascun filetto su un piatto, coprendolo con la salsa.

Ad Aosta questo piatto l’ho mangiato servito su un disco di polenta abbrustolita: una presentazione molto elegante e un sapore molto intenso.