
Quando ero ragazzina, un anno siamo andati al mare a Pesaro.Le famiglie come la nostra, agiate ma che non potevano permettersi un soggiorno in albergo di un intero mese, a Pasqua o al massimo il Primo Maggio, facevano una … Continua a leggere
Quando ero ragazzina, un anno siamo andati al mare a Pesaro.Le famiglie come la nostra, agiate ma che non potevano permettersi un soggiorno in albergo di un intero mese, a Pasqua o al massimo il Primo Maggio, facevano una … Continua a leggere
da “I tempi andati e i tempi di cottura ( con qualche divagazione)
Mi piace pensare di essere figlia d’arte e un po’ anche nipote.
Più per le caratteristiche culinarie del ramo materno ,che per quelle legate allo spettacolo del ramo paterno. Anche se in fondo, sotto certi aspetti, non mi manca una piccola dose di teatralità.
La mia nonna materna, l’indimenticabile nonnina Virginia, entusiasta esempio di come si possa trarre gioia anche dalle cose più semplici, era una persona straordinaria, piena di calore umano e quando era felice manifestava la sua gioia battendo le mani come una bambina.
È vissuta con noi per lunghi periodi,prima a Cisano e poi a Cavaion,aiutandomi a tirare su i bambini con amore infinito e a tenere in ordine il giardino con indomabile entusiasmo, in cambio di una ospitalità affettuosa e di una grande considerazione per la sua esperienza, la sua saggezza, il suo calore e la sua umiltà.
Cucinava benissimo,come del resto la mia mamma, che però non ci metteva la stessa dose di allegria, ma piuttosto considerava la fantasia in cucina un po’ una perdita di tempo,uno sforzo inutile e non amava sperimentare di persona nuove ricette.
Era una persona pragmatica e volitiva, di grande rigore, poco incline ad accettare la ” diversità” in qualunque campo, quindi anche in cucina.
In questo non le somiglio affatto: io mi butto nelle novità come Tania Cagnotto si tuffa dal trampolino e m’ingarello come Valentino Rossi se si tratta di provare un piatto nuovo. E mi ci diverto.So di essere una persona complessa, non complicata,ma con qualche contraddizione.
Esempio: una volta l’anno-più spesso non si potrebbe- faccio i sugoli seguendo esattamente la ricetta di mia suocera Dina,che faccio di tutto per non dimenticare nonostante non ci sia più da così tanti anni, e anche la bole,ossia il castagnaccio,proprio come lo facevano la mia mamma, mia nonna e prima ancora probabilmente la mia bisnonna Libera,che ho conosciuto prima che morisse,alla fine degli anni ‘ 40. Faccio inoltre la crema fritta a rombi,impanati nel semolino come mi ha insegnato la zia Celina.
Insomma ,nel mio piccolo, salvo le ricette tradizionali,quelle di famiglia, perché non vadano perdute e perché la vita non è tutta nouvelle cuisine in fondo.
Ecco volevo dire questo accennando alla mia indole complessa: faccio il ragù che resta sul fornello almeno tre ore,proprio come lo faceva la mia mamma, ma anche degli amuse bouche di granchio, che le sarebbero piaciuti per raccontarlo alle amiche e degli antipasti insoliti e diversi ogni Natale, che la stupivano sempre.Ma del Natale parliamo un’altra volta perché questa si che è una faccenda complessa e complicata!
Quando ancora lavoravo e avevo veramente poco tempo da dedicare alla cucina, oltre che dei sughi per la pasta assolutamente squisiti (di funghi, di tonno e di piselli), la mia mamma ci faceva un pollo al limone che era una delizia, quello che mio figlio,verso i tre,quattro anni chiamava il “pollo zoppo” .E con ragione.
Si trattava di cucinare per noi mezzo pollo, a quarti, con l’aggiunta di un petto per il bambino e tre patate sbucciate ma intere:una a testa perché in quel tegame pesante, basso e un po’ ammaccato che usava per il pollo e che ho sempre visto per casa, di più non ce ne stavano.
Un bambino intelligente e precoce come il mio Simone,guardando nel tegame,non poteva non chiedersi perchè ci fosse un’unica coscia,giungendo quindi alla conclusione che il pollo della nonna, prima di finire in pentola, doveva aver avuto grossi problemi di deambulazione.
Abbiamo continuato a chiamare questo particolare pollo arrosto “pollo zoppo” anche dopoché la famiglia è cresciuta e il pollo veniva cucinato intero e non piu “mutilato” e questa definizione è nostalgicamente diventata parte del nostro lessico familiare.
È una ricetta che non ho mai replicato da quando la mia mamma non c’è più. La sua voce, il suo sguardo, i suoi gesti, i profumi e i sapori che continuo a considerare ” di casa” nonostante abbia una mia famiglia da più di quarant’anni , mi mancano ancora dolorosamente.
L’elaborazione di un lutto è un processo lungo e penoso, me ne sono accorta, ma sto cercando di metabolizzare immagini e ricordi per arrivare ad una serena accettazione di quello che considero ancora un abbandono. E quando ci sarò riuscita ,allora forse potrò cucinare anche il pollo al limone in modo che le lacrime dipendano solo dalla cipolla.
CREMA FRITTA
1 litro di latte intero,4 uova,4cucchiai di zucchero, 4 cucchiai di farina,buccia grattuggiata di 1 limone, 1 pizzico di sale,semolino per impanare,burro per friggere ,zucchero a velo per completare.
In una casseruola mescolo insieme farina,zucchero,buccia di limone e sale.Poi poco alla volta diluisco col latte,attenta a non fare grumi. Aggiungo le uova una alla volta,incorporandole bene al composto e lo metto sul fuoco.
Aspetto che si alzi il bollore e lascio cuocere per una decina di minuti a fuoco dolcissimo,mescolando continuamente.
Quando la crema è cotta ,la verso in una pirofila larga in uno strato alto circa 2 cm. e la lascio raffreddare completamente, poi la passo in frigorifero per almeno 3-4 ore.
La taglio quindi a rombi regolari non troppo grandi,li impano con il semolino e li friggo nel burro spumeggiante pochi alla volta, rigirandoli una sola volta.
A mano a mano che sono pronti li tolgo dal tegame e li cospargo con zucchero a velo setacciato col colino fine.
Giuro che non ricorda per niente quella che si mangiava in Piazza Erbe al banchetto dei bomboloni. Quella di “casa Martini” è buonissima.
AMUSE BOUCHE DI GRANCHIO
200 gr di polpa di granchio in scatola, 1 cipollotto fresco, 2 cucchiaiate di mascarpone,il succo di 1/2 lime,qualche goccia di Tabasco,1 cucchiaiata di prezzemolo tritato, 2 cucchiaiate d’olio,sale e pepe.
Tolgo la polpa di granchio dalla scatoletta,la sgocciolo bene e la metto in una ciotola.
Con la punta delle dita spezzetto ed elimino le eventuali cartilagini (che ci sono sempre).
Affetto molto sottilmente la parte bianca del cipollotto e lo unisco alla polpa di granchio,aggiungo anche il mascarpone e l’olio,il succo di lime, il Tabasco (qui regolatevi voi: la quantità dipende da quanto vi piace il piccante) e il prezzemolo.Salo appena e pepo abbondantemente.
Mescolo con delicatezza per amalgamare perfettamente tutti gli ingredienti e suddivido questo composto sui cucchiaini da tè che poi posiziono a raggiera su un bel piatto.
Servo i cucchiaini di granchio in salotto,prima di andare a tavola: sono uno sfiziosissimo accompagnamento all’aperitivo che precede,per esempio, una cena a base di pesce.
POLLO ZOPPO
1 pollo tagliato in quattro,1 piccola cipolla,1 foglia di alloro,2-3 foglie di salvia,1 spicchio di aglio, 1 limone non trattato, 1/2 bicchiere di vino bianco, 4 patate non troppo grosse,olio e burro,sale e pepe.
La mia mamma tritava la cipolla e la faceva imbiondire appena in olio e abbondante burro,poi accomodava nel tegame i pezzi di pollo,li irrorava col succo di limone,salava, pepava pochissimo e aggiungeva salvia,aglio e alloro.
Rigirava la carne un paio di volte per farla leggermente rosolare , metteva il coperchio e proseguiva la cottura.
Trascorsa la prima mezz’oretta spruzzava col vino e aggiungeva le patate lavate e sbucciate ,accomodandole tra i pezzi di pollo.
Ogni tanto controllava che il sugo restasse abbondante e la carne morbida. Se occorreva aggiungeva un mestolino d’acqua calda in cui scioglieva una punta di Legorn.
Quando il pollo e le patate erano pronti li toglieva dal tegame e filtrava il sugo con un colino eliminando gli odori.Poi rimetteva tutto nella pentola e ce lo faceva avere.
A me non restava che spruzzarlo con dell’altro vino bianco e dare una scaldatina prima di servirlo.
È un piatto semplice e gustoso,un sapore perduto di famiglia che mette sempre un po’ di malinconia.
Copyright by Pennino
da “I tempi andati e i tempi di cottura (con qualche divagazione)”
Un po’ come le briciole che riportarono a casa Pollicino,soprattutto quando organizzo una cena,chiamiamola formale, i miei piatti sono un susseguirsi di ingredienti e sapori che danno loro un carattere,un senso,un gusto particolare e riconoscibile che in un certo qual modo cerca di condurti da qualche parte: verso un angolo della memoria, tipo un giardino di Sorrento che profuma di zagare e limoni, una terrazza sul mare in Costa Azzurra che odora di erbe Provenzali, un Taco Bell in California con l’aroma pungente di Chipote, da Giggi Er Sozzone al Testaccio dove la cucina è vicina alla toilette….ma qui passerei oltre. In generale, sono tutti ricordi ed emozioni che si possono mettere in tavola.
C’è chi le chiama cene a tema, ma io non sarei tanto generica e qualunquista. Insomma non è che a settembre mi metto in mente di fare dei funghi la colonna sonora prevedibile e scontata di un menù a base di ovoli,porcini,finferli e chiodini.
Si può fare,certo,e sarebbe senz’altro tutto squisito…. ma che noia! La mia amica Melina avrebbe detto di sicuro: “Mi scoccio!” dovendo cucinare cose così banali.Tanto vale fare una gita sulle Dolomiti,dove i funghi li fanno benissimo dappertutto e risparmiarsi la fatica.
Insomma quello che voglio dire è che mi piace – e vorrei che finisse col piacere anche a voi, così ne possiamo parlare quando avrò un blog – lavorare intorno a un’idea e svilupparla con fantasia.
Dunque,il tema di una cena di settembre non saranno i funghi e morta lì,ma una gustosa rievocazione di una gita al lago di Carezza,di una passeggiata in pineta a Folgaria,della vista delle Tre Cime di Lavaredo.Capito cosa intendo?
Quindi comincerei col servire un’insalatina di porcini e mele,seguita da maltagliati con pinoli e formaggio di malga,involtini di maiale al ginepro e un gelato alla nocciola con del miele di castagno. Che ne dite?
Adesso non è che per forza vi dovete intestardire su ricette dell’Alto Adige, ma era solo un’idea per mettere in tavola il sapore di un ricordo e condividerlo.
E poiché i ricordi sono come le ciliegie e uno tira l’altro, mi è venuta in mente un’esperienza piuttosto recente vissuta proprio in Trentino.
La regina Vittoria, sovrana molto illuminata, con grande liberalità diceva che “Ognuno può fare quello che vuole, basta che non lo faccia per strada e non spaventi i cavalli”.
Trovo che sia un grande pensiero, di cui avrebbe dovuto tener conto un certo ristoratore, con velleità alberghiere, al quale una Stella Michelin e un trofeo televisivo hanno un po’ dato alla testa,tanto da indurlo ad aprire un Hotel che credo sia il Relais più kitsch delle Tre Venezie ,nonostante le sue 5 Stelle Lusso.
Si tratta di un piccolo Albergo a ridosso di un bellissimo bosco,che vanta lussuosissime suite sontuosamente arredate,ricche di incredibili optional,tipo soffitti di cristallo che ti consentono di guardare le stelle,ampia zona Jacuzzi,biblioteca ben fornita e raccolta di film e CD notevole,oltre a proporre una squisita cena gourmet servita in camera e un massaggio con oli essenziali da eseguire a lume di candela,inclusi nel pacchetto.
Detto così sembra suggestivo vero? Ci avevamo creduto anche noi quando l’abbiamo prenotato l’anno scorso a fine Agosto,dopo che da un pezzo davo il tormento a mio marito per indurlo a passare un weekend in Trentino.
Quando ci siamo decisi,abbiamo scelto la Val di Non un po’ perché è vicina e un po’ perché ci intrigava quello che avevamo letto di questo Hotel.
In realtà la vantata Villa e il Ristorante sorgono in una viuzza decentrata, accanto a piccoli condomini di appartamenti da affittare e casette a due piani decorate col bucato steso ad asciugare, con biciclette e altri giochi per bambini abbandonati in giardinetti mal tenuti. Un quartiere modesto,poco in linea con la ricerca del lusso e raffinatezza inseguita dai proprietari dell’hotel
Il “benessere” era affidato ad un estetista molto dolce ma un po’ improvvisato e mentre Lino si godeva lo splendido Golf Club Dolomiti,per il mio massaggio, anziché rilassarci in camera, sono dovuta scendere in accappatoio al Centro estetico del sotterraneo, dove faceva anche freddino.
Il menù del famoso Ristorante il giorno successivo si è rivelato privo di grandi possibilità di scelta per noi, che avendo goduto la sera precedente della luculliana degustazione compresa nella proposta “Romantica”, in pratica avevamo già assaggiato tutti i piatti più significativi durante una cena servita nella suite e durata un po’ troppo a causa della lentezza del servizio.Abbiamo scelto comunque due proposte abbastanza interessanti, ma non certo indimenticabili ,che ci sono state servite con sussiego e una certa diffidenza dall’arcigna madre del già citato chef, mentre i vini ci venivano consigliati dal gemello sommelier.
Non ho niente contro le conduzioni familiari ,anzi a volte sono proprio vincenti , ma le preferisco meno pretenziose e decisamente meno salate di quella, a mio avviso sopravvalutata, dell’Orso Grigio (Villa e Ristorante). Peccato però , perché le intenzioni erano buone, ma mancava forse quel pizzico di classe, di esperienza e di eleganza che avrebbero fatto la differenza.
INSALATINA DI PORCINI E MELE
300gr di funghi porcini- 2 mele Granny Smith,1 cipollotto,1 gambo di sedano,aglio e prezzemolo,1/2 bicchiere di latte,succo di limone,olio,sale e pepe.
Pulisco benissimo i funghi porcini- che ho scelto con cura dal Mariano- e li affetto. Poi affetto anche il cipollotto e lo metto a bagno nel latte.
Intanto trito insieme il prezzemolo ,il sedano e l’aglio(io ne metto appena una scaglietta, ma se ne può utilizzare anche mezzo spicchio : va a gusti.)
Lavo e sbuccio le mele, le affetto sottili sottili e le spruzzo con il succo del limone perché non anneriscano.
Poi comincio ad assemblare l’insalata ,direttamente nei piatti individuali così non c’è da mescolare e non si corre il rischio di frantumare sia i funghi che le mele.
Dunque, faccio uno strato di fettine di mela, sopra appoggio qualche rondellina di cipollotto scolato dal latte e tamponato con la carta da cucina e sopra ancora distribuisco i porcini.Preparo una citronette classica ma non troppo acida e la miscelo al composto di aglio,sedano e prezzemolo.
Condisco con questa salsina le insalatine e le servo come antipastino….Ma che carino!
INVOLTINI AL GINEPRO
12 fettine sottili di lonza di maiale,150 gr di polpa di maiale macinata, 1 salsiccia, 100 gr di prosciutto cotto a cubetti, bacche di ginepro, 1 rametto di rosmarino, qualche foglia di salvia,olio e burro,sale e pepe, poca farina, 1 bicchierino di gin.
Pesto nel mortaio qualche bacca di ginepro, diciamo 5 o 6 e le mescolo agli aghi di rosmarino tritati,poi unisco il macinato, la salsiccia spellata e i cubetti di prosciutto.
Suddivido questo composto sulle fettine di lonza,le chiudo a involtino e le fermo con uno stuzzicadenti.
Le infarino leggermente ,poi le cuocio in olio e burro con la salvia.
Verso la fine della cottura le spruzzo con il gin e lo lascio evaporare.
Prima di portarle in tavola ,elimino gli stuzzicadenti.
Se non siete patiti del Cocktail Martini, non state a fare spese in più. Se in casa non avete il Gin,usate pure della buona grappa:vengono bene comunque ed hanno una rustica ed apprezzabile aria montanara.
Copyright by Pennino
da “I tempi andati e i tempi di cottura con qualche divagazione”
Nel 1985 sono andata per la prima volta negli Stati Uniti
Sognavo di riuscirci fin da bambina , da quando, verso la metà degli anni Cinquanta, nel nostro quartiere abitavano le famiglie dei militari della SETAF di stanza alla caserma Passalacqua e io subivo il fascino esotico di Cadillac, Chevrolet, Buick ,Ford, sconfinate Station Wagon, biciclette super accessoriate, abiti con le sottogonne, guantoni da baseball e ragazzine che sembravano tutte figlie di Doris Day.
Sono tornata negli Stati Uniti altre dodici volte e restano sempre una delle mie mete preferite.
Contrariamente alla maggioranza dei miei coetanei o quasi- tanto per stabilire un punto fisso generazionale vi ricordo che sono del ’47 – non ho mai associato l’idea di “America” a New York.
Per me l’America è la California. Lo è sempre stata. In fondo sono venuta su a pane e Hollywood, data la professione del mio papà e la mia idea di America è sempre stata la West Coast, senza ripensamenti.
Ormai adesso tutti fanno viaggi intercontinentali con molta facilità , spesso a costi competitivi ed estremamente ragionevoli e poi internet – a saperlo usare – ti da’ la possibilità di prenotare voli e alberghi senza passare dalle Agenzie Viaggi e ti consente di accedere sia tour virtuali che a tariffe scontate, ma negli anni Ottanta era tutto un po’ più complicato e molto più avventuroso.
Noi eravamo tra pochi a non scegliere i viaggi organizzati, ne’ allora ne’ mai, anzi proprio “vade retro”!
Per affrontare quel primo viaggio mi ero procurata il maggior numero possibile di depliant e tutte le brochure che ero riuscita a racimolare e sera dopo sera, creavo il mio itinerario, lo modificavo, lo ampliavo o lo riducevo tenendo conto dei desideri e delle esigenze degli altri partecipanti alla nostra avventura, delle mete da raggiungere, dei luoghi da visitare, del chilometraggio giornaliero-anzi del “mileage”- e degli orari dei “domestic flies”, se previsti.
A questo punto ero pronta a confrontarmi vis-à- vis col mio referente dell’Agenzia Viaggi, che alla fine mi consegnava i biglietti aerei, la ricevuta dell’Autonoleggio, il blocchetto di Voucher dei Travelodge e le prenotazioni pre-pagate degli Hotel nelle grandi città, le metropoli, dove non puoi mica dormire nei Motel ,scherziamo?
Il più era fatto , praticamente si poteva partire. Immaginare e comporre come un mosaico quella prima avventura Americana è stato bellissimo. E anche un po’ pionieristico. Quante aspettative, quante illusioni ,quanta eccitazione, quante speranze!
Sono emozioni che riesco a provare ancora, anche adesso che sono cintura nera di viaggi in U.S.A.
Pensate: ogni volta che sbarco a Los Angeles mi manca il fiato.Lo so ,probabilmente non dipende dall’emozione ma piuttosto dal monossido di carbonio presente nell’aria ma, che vi devo dire, per me è sempre una sensazione fantastica.
Sono affetta da una memoria di ferro,che a volte è proprio una maledizione perché non dimentico proprio niente e non riuscendo ad essere selettiva, purtroppo spesso vengo assalita da reminiscenze anche sgradevoli, ma nel complesso riesco a ripescare e rivivere momenti che vale proprio la pena di ricordare.
Di quel primo viaggio in America, il più classico dei cosiddetti Coast to Coast (Los Angeles-San Diego-Las Vegas-Parco delle Sequoia-Monterey-San Francisco-New York) non ho buttato via niente ,nemmeno fisicamente,anche se ho dovuto ridurre la quantità di ricordi cartacei perché entrassero nell’album delle memorabilia,album con poche foto ma tutte le matrici degli ingressi ai Parchi,gli scontrini di Macy’s e di Saks Fifth Avenue, i tovagliolini di carta col logo dei Fast Food- che non erano ancora arrivati in Italia- e perfino le Guide TV. E sono solo degli esempi.
Quello che non sono riuscita a mettere nell’album me lo ricordo comunque:Aldo che si gonfiava, la Fanou che preferiva la “piscine” alla Seventeen Miles Drive, la Melodie che si annoiava a See Word, la felicità di Simone che ha passato il decimo compleanno dentro il Toys “R” Us di Visalia, il mio primo pranzo a base di insalata al Blue Bayou di Disneyland.
Ho vissuto quelle prime tre indimenticabili settimane negli Stati Uniti anche come esperienza culinaria, mentre mio marito si è cibato praticamente solo di New York steak, qualche T-Bone steak e baked potatoes.Solo occasionalmente si è adattato all’assunzione di un sandwich, rigorosamente al prosciutto,ignorando le zuppe e le insalate.
In fatto di cibo era sempre stato molto abitudinario e anche un pochino diffidente.Adesso è cambiato, ampliando enormemente i suoi orizzonti culinari e oggi appoggia con fervore molte specialità gastronomiche prima disdegnate, anche Statunitensi.
Dovreste sentirlo in America, come ordina ormai con disinvoltura e senza grossi errori di pronuncia, Clam chowder,Prime Rib, Pancake,Sea food,Hashbrown e soprattutto steamed,baked o broiled Lobster, il tutto con l’entusiasmo del neofita che è uscito dal tunnel della falsa convinzione che gli Americani mangino solo Hamburger e Hot Dog.
CLAM CHOWDER
(Le dosi sono a tazze perché la ricetta è quella originale)
2 confezioni di vongole surgelate sgusciate, 6 tazze di acqua, 1/2 tazza di bacon tritato grossolanamente, 1 tazza e 1/2 di cipolle bianche tritate, 2 tazze e 1/2 di patate a cubetti, 2 tazze di latte tiepido, 1 confezione di panna da cucina, 1 foglia di alloro, sale e pepe bianco , prezzemolo tritato.
Faccio scongelare le vongole,quelle veraci quando le trovo, filtro il liquido che si è formato nel sacchetto e lo tengo da parte. Sciacquo le vongole e le conservo a temperatura ambiente.
In una casseruola piuttosto grande faccio rosolare il bacon a fuoco basso finché non rilascia tutto il suo grasso e comincia ad abbrustolire ed è allora che aggiungo le cipolle e le faccio cuocere salando appena e mescolando spesso perché diventino morbide ma non colorite.
Unisco il liquido delle vongole, le patate, l’alloro e l’acqua e dopo una decina di minuti aggiungo le vongole e continuo la cottura per una mezz’oretta :le patate devono essere morbide. Verso il latte e la panna e aspetto che la zuppa riprenda il bollore mescolando di tanto in tanto con delicatezza, abbasso la fiamma e faccio cuocere altri dieci minuti.
Elimino l’alloro (non vorrei mai che qualche commensale mangiasse la foglia e poi scoprisse la ricetta!) e la clam chowder è pronta.Regolo di sale e pepe la porto in tavola.
Mi piace servirla in ciotole individuali, cosparsa di prezzemolo tritato e accompagnata dai cracker all’acqua,proprio come fanno nel New England. E anche in tutto il resto degli Stati Uniti per la verità.
CAESAR SALAD
Lattuga romana, 1 spicchio d’aglio,2 cucchiai di succo di limone, 1 cucchiaio di salsa Worcestershire, 1 cucchiaio di senape, 3 cucchiai di panna da cucina, 1 tazzina di olio d’oliva, sale e pepe, parmigiano a scaglie, filetti di alici sott’olio,crostini fritti.
Riduco a crema l’aglio e lo lavoro con la senape, il succo di limone e la Worcester .Un po’ alla volta unisco la panna e l’olio, salo e ottengo un’emulsione ben montata con la quale condisco la lattuga prima lavata e poi spezzettata con le mani.
Mescolo delicatamente e poi cospargo di pepe nero appena grattugiato e di scaglie di parmigiano.
Completo con i filetti d’acciuga e un cucchiaio di crostini e l’insalata e’ pronta.
Negli Stati Uniti la propongono come entree prima del Main course, ma diventa un piatto unico a pranzo se si arricchisce con un petto di pollo alla griglia tagliato a listarelle , oppure con una tazza di gamberetti al vapore.
La panna e’ una variante che preferisco all’uovo crudo o in camicia che spesso si trova nelle ricette originali e che crea una specie di maionese: se volete provate anche questa versione, ma come la faccio io è proprio buona.
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Da anni faccio un filetto in crosta che darebbe del filo da torcere a quello alla Wellington, che peraltro preferisco cucinare in monoporzioni (https://silvarigobello.com/2014/11/26/filetto-in-crosta-di-sfoglia/) se si dovessero sfidare in una gara.
Si tratta di un piatto laborioso, con tanti passaggi e tre diverse cotture, ma il risultato è straordinario.
Metto a rosolare a fuoco vivace, in una casseruola che lo contenga di misura, un filetto di maiale di circa 600 gr con 1/2 bicchiere di olio, 2 spicchi d’aglio e un rametto di rosmarino.
Quando mostra una bella crosticina su tutti i lati, salo e pepo generosamente, abbasso la fiamma, incoperchio e continuo la cottura per altri 10 minuti rigirandolo più volte.
Tolgo il filetto dalla casseruola e lo lascio raffreddare.
Intanto faccio trifolare 300 gr di funghi champignon affettati sottili nel burro con aglio, pepe, sale e prezzemolo. A fine cottura, fuori dal fuoco, unisco 400 gr di polpa di maiale macinata e mescolo bene.
Imburro uno stampo da plum cake, lo fodero di carta forno anch’essa imburrata, accomodo sul fondo circa 1/3 dell’impasto di funghi e macinato, sopra appoggio il filetto sgocciolato, conservando il sugo, e copro con il restante impasto riempiendo anche i lati dello stampo, facendo attenzione che non restino dei vuoti.
Copro con un foglio di alluminio e inforno a 160° per 50 minuti.
Quando è cotto, aspetto a sformarlo che si sia raffreddato.
Recupero il sugo che si è formato sul fondo dello stampo inclinandolo e versandolo nel contenitore dove ho conservato quello della cottura del filetto.
Capovolgo lo stampo con attenzione al centro di una confezione di pasta sfoglia pronta, stesa sul piano di lavoro e avvolgo il filetto “bardato” di macinato e funghi, sigillandolo con il latte.
Appoggio la preparazione, con la giuntura sotto, su una teglia coperta di carta forno imburrata, la spennello con altro latte e inforno nuovamente a 180° per una ventina di minuti: la sfoglia deve risultare bella dorata.
Sforno, aspetto 5 minuti e intanto unisco i due sughi ottenuti dalla cottura delle carni, li filtro con un colino fine, li scaldo aggiungendo un generoso pezzetto di burro e servo a parte in salsiera.
Naturalmente porto in tavola il filetto intero e lo affetto davanti agli ospiti, perché il suo bello è proprio mostrarlo con la crosta, delicata, friabile, intatta.
Lo so che è una ricetta complicata e laboriosa, ma in certe occasioni vale davvero la fatica.
In fondo però si tratta di un piatto che si può preparare in più riprese, quindi… sapete già come la penso.
La ricetta di oggi è in fondo il frutto di un’elaborazione del ripieno di uno dei miei arrosti stagionali, al momento non saprei precisare quale, ma in uno almeno, se non due sono presenti gli ingredienti di questo risotto morbido, dal sapore pieno e una piacevole consistenza che sorprende ad ogni boccone: i funghi e le castagne, o più precisamente i porcini e i marroni.
La realizzazione della ricetta può apparire complessa e in fondo lo è, ma se si esaminano le preparazioni dei due ingredienti principali, ci si rende conto che si possono, anzi si devono, eseguire in tempi diversi, riuscendo così a diluire l’impegno.
Comincio lessando dei bei marroni locali, che si acquistano proprio in questi giorni alle varie fiere delle località prealpine della Lessinia, non le castagne, che come ci ha di recente ricordato Simona di Grembiule da Cucina, sono più difficili da sbucciare, anche se sono più dolci.
La quantità di marroni da utilizzare è a discrezione.
Per questa ricetta di risotto per due persone, giusto per darvi un’idea, ne ho usati 8, numero che si può aumentare o diminuire, ma a me è parsa una quantità equilibrata.
Finché bollivano, ho mondato e affettato degli stupendi funghi porcini e li ho cucinati brevemente con aglio, burro, olio, scalogno e prezzemolo, nel solito, classico modo insomma.
Ne preparo in genere molti più di quanti non me ne servano per la ricetta del risotto di oggi perché poi li utilizzo anche in un ripieno o come contorno, non occorre deciderlo sul momento: come i marroni, i funghi sono talmente versatili da non costituire un problema se ce ne sono in abbondanza, no?!
Una volta sbucciati i marroni, li tagliuzzo in 4-5 pezzi e li faccio insaporire nel tegame dove ho travasato 2 generose cucchiaiate di porcini trifolati e tengo tutto al caldo.
Preparo il risotto con 2 tazze di brodo nel quale verso una tazza di riso appena arriva a bollore e lo porto a cottura senza mai mescolare.
Quando è cotto ed ha quindi assorbito tutto il liquido, fuori dal fuoco aggiungo, burro, parmigiano, il sugo di porcini con i marroni, mescolo e servo spruzzato di prezzemolo tritato.
Credo che chi mi conosce non si stupirà più del mio modo di cucinare il risotto, comunque se non vi piace, suggerisco di prepararlo come fareste un comune risotto con i funghi aggiungendo le castagne alla fine, al momento di mantecare.
Mi sono resa conto che in quest’ultimo periodo, salvo rarissime eccezioni, non ho mai cucinato la pasta.
Sarà che il non averlo mai preparato per tutta l’estate mi è mancato molto, dunque non faccio che utilizzare per i miei primi piatti asciutti il riso anziché la pasta e mi sa che il blog ne potrebbe risentire perché potrei essere un po’ ripetitiva.
Spero che non succeda perché i risotti consentono una tale varietà di ricette che sarebbe un peccato non parlarne.
Dell’autunno, una delle tante cose che amo oltre ai suoi colori, sono i doni che la terra ci offre con generosità.
Questa è la stagione dei funghi più pregiati, dei tartufi più prelibati, delle zucche più polpose.
Con queste meraviglie cucino piatti classici e saporiti, come i risotti, che le esaltano e fanno felici chi li assaggia.
Arricchisco per esempio il tradizionale “riso co’ la suca” delle nostre parti con le capesante, ma questa ricetta la posterò uno dei prossimi giorni.
Oggi parliamo del risotto con i porcini, che è quanto di più semplice si possa cucinare, ma l’aggiunta di qualche preziosa lamella di tartufo lo rende sofisticato e il contenitore da appoggiare sul piatto, a base di parmigiano grattugiato ne fa un piatto di grande eleganza.
Si parte mondando e affettando circa 200 gr di porcini piccoli e profumati.
Si fa rosolare con olio e burro uno scalogno tritato con 1 spicchio d’aglio grattugiato e 1 cucchiaio di prezzemolo tritato.
Si aggiungono i funghi a fettine e si fanno saltare a fuoco vivace senza farli cuocere troppo a lungo. Si insaporiscono con sale e pepe e si tengono da parte.
Si portano a bollore 2 tazze di brodo leggero (di pollo o vegetale), si versa una tazza di riso, si scuote il tegame, si copre con il coperchio lasciando una piccola apertura, che mia nonna chiamava “sbacèto” cioè spiraglio e si porta a cottura senza mai mescolare.
Nel frattempo si preparano le cialde di parmigiano facendo fondere in una padella antiaderente, più o meno della stessa misura del piatto fondo, 3-4 cucchiaiate di formaggio parmigiano distribuito su tutta la superficie in maniera omogenea.
Quando è completamente fuso si trasferisce con una spatola (e molto garbo) su un piatto fondo capovolto facendogli prendere la forma di una conca.
Si ripete l’operazione per altre tre volte.
Questa è una preparazione che ho visto anche in molti altri blog e che personalmente non avevo mai sperimentato con un elemento caldo, come il risotto o una vellutata al suo interno. Temevo che il calore del contenuto la fondesse in fretta, invece regge.
Nel frattempo il riso è pronto. Si spegne il fuoco, si manteca con burro e parmigiano e si condisce con i porcini.
Si spolverizza di prezzemolo tritato, si suddivide nei contenitori di parmigiano sistemati sui piatti (raddrizzati!) e si completa con il tartufo affettato con l’apposito attrezzo.
Si serve immediatamente perché, anche se non velocemente come temevo io, il calore del risotto tende a fondere la cialda di parmigiano.
Il titolo è lungo e pomposo, lo so, ma volevo che si capisse a prima vista di cosa tratta la ricetta, anche se fa pensare a un piatto servito a casa della Contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare… con buona pace di Fantozzi.
Di tanto in tanto, ma davvero molto raramente, mi azzardo ad entrare nel mondo della cucina etnica, pratica del tutto disdicevole secondo mio marito, che ha gusti molto filo-europei.
L’occasione è la visita di uno dei figli per esempio, che mi consente di preparare e gustarmi una porzione di profumato, ricco, cremoso e pungente pollo al curry, visto che solo per me non lo faccio di certo.
Nonostante, come dicevo, sia un piatto che cucino raramente, mi piace comunque variarlo sempre un po’, soprattutto per divertirmi.
L’ultima volta, come innovazione, l’ho arricchito con gli anacardi e la consistenza croccante della frutta secca è stata una carta vincente.
Metto in tegame un po’ d’olio e 1 bella cipolla bianca tritata, la faccio leggermente imbiondire, unisco 1 petto di pollo a cubetti e lo faccio rosolare.
Aggiungo 1 foglia di alloro, 1 manciata di uva sultanina fatta rinvenire in acqua tiepida e poi strizzata, una manciata di anacardi, 1 cucchiaio di curry forte in polvere sciolto in una tazza di brodo vegetale, sale, pepe, 2 chiodi di garofano e del prezzemolo tritato.
Dopo qualche minuto aggiungo 1 confezione di panna da cucina e porto a cottura. Ci vorranno 20 minuti circa, se i bocconcini di petto di pollo sono piuttosto piccoli. Mescolo delicatamente di tanto in tanto.
Se nel frattempo la salsa si è addensata troppo, unisco del latte.
Quando il piatto è pronto lo servo su un letto di rucola.
Questo delizioso piatto vagamente esotico si può servire con un riso pilaf cotto in brodo vegetale arricchito con qualche spezia, come il cardamomo, la cannella, i chiodi di garofano e l’anice stellato, oppure appoggiato su una focaccia di pane azzimo.
Non guardatemi male: il titolo alla ricetta ha voluto darlo mio marito, preso da un grande entusiasmo assaggiando questo risotto coi gamberi, arricchito di altri gamberi cotti con una salsa speciale, mentre io stavo ancora fotografando il piatto.
Abbiamo avuto una settimana difficile, o meglio solo un po’ complicata, ma comunque ci meritavamo una cenetta speciale, quindi ho cucinato questo risotto, che anche se è elencato tra i Primi piatti, noi l’abbiamo considerato un piatto unico a cui ho fatto seguire solo una mousse al limone.
“Solo” in realtà è forse un po’ riduttivo, ma giudicherete voi domani quando posterò la ricetta di questo pungente dessert.
Intanto pensiamo al risotto.
Si sciacquano, si sgusciano, si privano del filo intestinale circa 500 gr di code di gambero e si tagliano a pezzetti tenendone da parte 12.
Si fanno imbiondire 2-3 scalogni in 30 gr di burro.
Si versano nel tegame le code di gambero, si mescolano con un cucchiaio di legno e appena cambiano colore, si sfumano con 1/2 bicchiere di vino bianco, che si fa evaporare. Si tolgono dal fuoco e si tengono da parte.
Si portano a bollore 2 tazze di brodo di dado granulare di pesce, se non si ha a disposizione quello vero, e appena alza il bollore si aggiunge una tazza di riso.
Si scuote il tegame, si copre a metà e si fa sobbollire piano finché tutto il brodo non viene completamente assorbito dal riso.
Ci vorranno i soliti 15-18 minuti a seconda del riso scelto.
Nel frattempo si prepara un trito di aglio e prezzemolo e si insaporiscono le code lasciate intere facendolo aderire bene.
Si fanno saltare con olio e burro per un minuto per parte, si sfumano con un bicchierino di Cognac e si tengono al caldo.
Quando il riso è cotto, morbido e al dente, si aggiungono burro e parmigiano e si unisce il sugo di gamberi preparato in precedenza, si mescola e si impiatta (queste dosi come al solito sono per quattro, regolatevi).
Su ogni piatto si aggiungono 3 code intere con il loro sugo e si serve subito.
Il risotto naturalmente si può fare a modo mio oppure come siete abituati. Sul mio risultato garantisco, per esprimermi sul vostro… dovrei assaggiarlo.
Spero abbiate notato come ho preparato le code di gambero intere perché è un modo elegante e insolito di presentarle. Se non risulta abbastanza chiaro dalla fotografia, chiedete pure.
Questo è un piatto che preparava mia nonna Emma quando abitava a Garda, però con il delicato coregone del nostro lago, messo in risalto dai poco conosciuti limoni del Lago di Garda, ricchi invece di storia e di sapore.
Io, non amando particolarmente il pesce d’acqua dolce, preferisco usare invece il salmone, dalle carni dolci e gustose, ma non ho sostituito la provenienza campanilistica dei limoni, che avendo una buccia profumatissima particolarmente sottile, si prestano molto bene a questa vecchia ricetta
Ve la do subito perché dopo ho voglia di raccontarvi quello che so sui nostri agrumi gardesani, ossia benacensi, a scelta.
Si tagliano a cubi 5-600 gr circa di salmone privato della pelle e delle lische (io lo trovo già “cubettato” dal mio pescivendolo) e si fa marinare per un’oretta con succo di limone, aneto, olio d’oliva, prezzemolo tritato, pepe e un pizzico di paprika.
Intanto si affettano molto sottili, con un coltello affilato, un paio di limoni non trattati e lavati con cura.
Si toglie il salmone dalla marinata e si alterna sugli spiedini alle fettine di limone piegate in due. Si infornano a 200 gradi per una decina di minuti spennellati abbondantemente di marinata, e poi si servono con le patate bollite, come faceva mia nonna, per mitigare l’asprezza dei limoni.
Questa è la ricetta, adesso permettetemi un po’ di folklore gardesano.
I limoni del Lago di Garda non sono famosi come quelli della Costiera Amalfitana, ma ancora più ricchi di storia.
Fin dal Settecento il litorale a nord di Salò, sulla costa Bresciana, a circa 46° di latitudine, divenne famoso per essere la zona di coltivazione di agrumi più settentrionale al mondo, grazie al suo microclima quasi mediterraneo e alle imponenti serre a vetrate di cui oggi non restano che le vestigia.
Ma ancora prima, nel 1464 l’antiquario Felice Feliciano scriveva di quella zona che “era luogo profumato dagli effluvi dei rosai e ombreggiato dai rami frondosi di limoni e cedri”.
Nel 1483, anche Marin Sanudo, storico e diarista di origini veneziane riferì di “zardini de zedri, naranzari et pomi damo” presenti lungo la Riviera.
Nel Cinquecento Bongianni Grattarolo, poeta e accademico letterario nativo di Salò, annotava come “la riva del Lago di Garda possiede molti giardini copiosi in ogni stagione dell’anno, di tutti quei pomi che hanno la scorza d’oro”.
Agli inizi del Settecento a Bogliaco fu fondata la ditta “G. Francesco Bentotti per il commercio dei limoni” che li esportava in tutta Italia e in molti Paesi dell’Europa Nord Orientale.
Il limone del Garda era infatti richiesto per “le sue qualità medicinali, per l’acidità, l’aromatica fragranza del succo e della sua corteccia, il suo durar fresco più a lungo d’ogni altro”.
Oltre a ciò era molto apprezzato per la sottigliezza e la lucentezza della scorza e la forma più rotonda, che ne facevano raddoppiare o triplicare il prezzo rispetto a quello dei limoni di altre zone d’Italia.
A cavallo tra Ottocento e Novecento però la produzione dei nostri limoni cominciò a risentire pesantemente della concorrenza di quelli delle regioni meridionali, prodotti a costi molto inferiori, dalle pesanti spese di manutenzione delle limonaie e dalla scoperta dell’acido citrico sintetico.
L’interesse quindi per la coltivazione si andò esaurendo e oggi le storiche e imponenti limonaie che per secoli avevano rappresentato una grande risorsa economica, sono quasi del tutto scomparse.
Una delle poche che ancora resistono è sulla sponda Veronese del Lago, a Torri del Benaco, addossata al castello.
Il castello di Torri del Benaco fu fatto costruire nel 1383 sulle rovine di un preesistente maniero risalente all’Alto Medioevo, da Antonio della Scala, che fu l’ultimo Signore della Famiglia degli Scaligeri di Verona.
Sul lato meridionale si trova l’antica limonaia, costruita nel 1753 e ancora ben curata secondo le tecniche tradizionali, che consistono nel rimuovere o sigillare perfettamente le vetrate a seconda delle stagioni.
Questa è una scena che si incontrava molto di frequente nel paesi del Lago di Garda fino agli anni Sessanta, direi: i venditori di cedri e limoni con il loro carrettino.
Quando ero bambina ce n’era uno all’ingresso del ponte per entrare a piedi a Sirmione. Il mio papà mi comprava sempre un grosso cedro che poi a casa mangiavo a fettine coperte di zucchero.