Ji Rou Wan. Più o meno

Chi è appassionato di cucina cinese, conosce senz’altro il pollo alle mandorle, che dovrebbe essere il Gong Bao Ji Ding.
Credo sia uno dei piatti più popolari, insieme al riso alla Cantonese e agli involtini primavera, così conosciuto e popolare anzi che ho pensato di rinnovarlo facendone una versione finger food. L’ho trasformato in Ji Rou Wan: polpettine di pollo alle mandorle. Spero che la traduzione corrisponda!
È in realtà un’altra delle mie ricette “fumo negli occhi” in quanto l’esecuzione è di grandissima semplicità ma il risultato eccezionalmente invitante.

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In realtà ci si mette di più a fare la salsa di accompagnamento forse che non le polpettine. Vi dico subito come procedere per ottenere questa deliziosa salsa in cui intingerle, alla quale ho fatto qualche aggiustamento, diciamo europeo.

Si fanno imbiondire con poco olio di arachidi 2 scalogni affettati. Si aggiungono 1/2 peperone rosso privato dei semi, dei filamenti e della pelle (dopo averlo arrostito o passato in forno) a listarelle, 1/2 barattolo di polpa di pomodoro, 1 tazzina di ketchup piccante, 2 cucchiai di aceto di mele, 2 cucchiaini di zucchero di canna grezzo e si fa sobbollire piano.
Dopo una decina di minuti si frulla la salsa con il frullatore a immersione. Si rimette sul fuoco, si aggiunge 1 cucchiaio di maizena stemperata in una tazzina di succo d’ananas e si completa con 2 cucchiai di salsa di soia.
Si prosegue la cottura ancora qualche minuto, finché non si addensa leggermente.
Si fa raffreddare e si versa in ciotoline individuali.

Le polpettine si preparano mettendo in una ciotola 1 petto intero di pollo già cotto (allo spiedo o bollito) e frullato, 1 albume leggermente battuto, 1 spicchio d’aglio ridotto a crema, una grattugiata di zenzero (quantità a piacere secondo i gusti), 1 cucchiaio di salsa di soia e 1 cucchiaio di grappa. Si mescola tutto e si fa riposare.
Si sistemano in una ciotola 2 manciate di mandorle a lamelle.
Con le mani umide si fanno delle polpettine grandi poco più che una noce e si passano nelle mandorle facendole aderire bene.
Si allineano su una teglia coperta di carta forno e si cuociono a 200 gr finché le mandorle non hanno preso colore.
Si lasciano raffreddare e si servono con l’aperitivo.
Ognuno intingerà le proprie nella ciotolina della salsa con l’aiuto di una forchettina di legno. Naturalmente per i più abili si potrà prevedere anche l’uso delle bacchette…

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Cosce di tacchino in salsa aromatica

Durante un viaggio in Provenza alla ricerca dei soliti mercatini di brocantage, una volta abbiamo pranzato nel borgo medievale di Grasse.
Grasse è uno di quei deliziosi “villages perchés” alle spalle della Costa Azzurra, i villaggi fortificati, arroccati sulle colline, cinti da mura imponenti, ricchi di scalinate, fontane e passaggi a volta che costituiscono una delle più suggestive attrattive della Provenza medievale.
Dopo aver visitato il Musée Provençal du Costume et de Bijoux e quello di Jean-Honoré Fragonard, pittore che è stato uno dei più importanti esponenti del rococò, ci siamo fermati anche alla Maison Molinard e abbiamo creato, con l’aiuto di un “naso”, una fragranza personalizzata che un a volta a casa però non mi piaceva più…
Ricordo che abbiamo mangiato un’indimenticabile Cuisse de dinde, coscia di tacchino deliziosamente ricca di erbe e aromi che a casa rifaccio in un modo che ricorda molto quei sapori.

20141215-191607.jpgPer sicurezza si fiammeggiano con il cannello per caramellare, oppure direttamente sulla fiamma del gas, 2 cosce di tacchino e 2 sovracosce. Si sciacquano e si praticano dei tagli con la punta di un coltello affilato perché il condimento penetri meglio all’interno della carne.
Si prepara un trito classico con 1 cipolla, 1 gambo di sedano e 1 carota, si aggiungono 2 scalogni affettati sottili e si fa soffriggere con un battuto di 70 gr di lardo e 2 cucchiai di olio.
Si frullano intanto 1 spicchio d’aglio, gli aghi di 1 rametto di rosmarino, 2 foglie di salvia, le foglioline di 1 rametto di timo, 1 foglia secca di alloro, 2-3 bacche di ginepro, 2 chiodi di garofano, una grattugiata di noce moscata e 1 pezzetto di stecca di cannella.
Si uniscono 1/2 cucchiaino di sale e un’abbondante grattugiata di pepe fresco e con questo composto ben amalgamato si massaggia con cura il tacchino.
Si accomodano i 4 pezzi nel tegame col soffritto e si fanno rosolare. Si sfumano con 1 bicchierino di grappa, si aggiunge 1 mestolo di brodo e si cuociono a fuoco medio, col coperchio, rigirandoli ogni tanto.
Passata la prima mezz’ora, si aggiunge 1 bicchierino di Marsala. Quando è evaporato si uniscono 200 ml di panna da cucina e si prosegue la cottura a tegame scoperto.
Ci vorrà ancora una ventina di minuti. Per essere sicuri che sia cotto alla perfezione, si infila uno stuzzicadenti nella parte più carnosa della coscia e se entra con facilità ci siamo.
Si filtra il sugo con un colino e si serve a parte.

In Provenza anziché con la grappa, queste cosce di tacchino vengono sfumate con il Pastis, ma deve piacere l’inconfondibile profumo di anice.

Riso e fegatini di pollo

In ambito culinario Verona alterna i piatti semplici della tradizione contadina e le saporite preparazioni a base di pesce di lago, ad alcune ricette sontuose ed elaborate che risalgono al periodo in cui Verona ha subito il dominio prima Veneziano ed in seguito Austro-Ungarico.
Il tradizionale e delicato sugo a base di fegatini di pollo è sempre stato considerato un piatto di recupero in quanto utilizzava quello che del pollo veniva scartato nella preparazione di umidi e arrosti.
Le tagliatelle in brodo coi fegatini oggi sono invece una prelibatezza da gustare nei più rinomati ristoranti tipici della nostra città, quelli che servono anche bolliti con la pearà, risi e bisi, luccio in salsa, bigoli con le sarde e gnocchi di patate conditi con la “pastissada de caval”, tutti piatti tradizionali che in casa non si cucinano più.
Nella famiglia del mio papà, con i fegatini di pollo si condiva il riso e il risultato era una preparazione cremosa e sofisticata dal sapore intenso e molto particolare.

20141111-114127.jpgSi affetta finemente 1/2 cipolla bianca e si fa rosolare in olio e burro con 1 rametto di salvia e 2 foglie di alloro.
Si uniscono 300 gr di fegatini di pollo mondati perfettamente, privati del grasso e del sacchetto del fiele, lavati e tagliati a pezzetti e si lasciano insaporire.
Si regolano di sale, si aggiunge 1 pizzico di pepe bianco e si spruzzano con 1 bicchierino di grappa. Quando è evaporata si aggiunge un mestolino di brodo e si continua la cottura a tegame coperto per una ventina di minuti, badando che restino morbidi.
Nel frattempo si lessano nel brodo 350 gr di riso Vialone Nano, eccellenza della Bassa Veronese, con il sistema del doppio di liquido rispetto al volume del riso, quello che utilizzo sempre anch’io.
Quando il riso ha raggiunto la giusta densità leggermente all’onda ed è cotto al dente, si condisce con una grossa noce di burro, si eliminano le foglie di salvia e di alloro dai fegatini e si aggiungono l’intingolo, abbondante formaggio grana grattugiato e una grattata di noce moscata.

Anziché con la grappa io spruzzo i fegatini con il Cognac, ma ho voluto darvi la ricetta originale di mia nonna Emma, adesso regolatevi voi.

Gli ultimi fichi

L’arrivo dell’autunno mi mette sempre un po’ di malinconia.
Va be’, quest’anno abbiamo già fatto in pratica le prove generali per tutta l’estate, ma mi accorgo che per la seconda volta in pochi giorni intitolo i miei post “l’ultimo” questo e quello. È il segno che provo una certa mestizia, un sottile rimpianto per qualcosa che sta esaurendosi e questo mi rattrista.
L’autunno mi darà altri stimoli, altre soddisfazioni, mi riempirà gli occhi coi suoi incredibili colori, l’anima col profumo del mosto, con la prima bruma del mattino, con i tramonti di rame. Lo so, ma intanto la fine dell’estate mi immalinconisce.
Allora, finché ancora ce ne sono, approfitto di quello che è tipico ed esclusivo di questa stagione: i fichi.

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Si passano delicatamente con la carta da cucina inumidita dei bei fichi maturi.
Si tagliano a metà dal fondo lasciandoli però attaccati al picciolo.
Si monta in una ciotola della ricotta di pecora freschissima con qualche cucchiaiata di parmigiano grattugiato e 1 spruzzo di grappa e si farciscono i fichi.
Poi si avvolgono uno per uno in fettine di prosciutto San Daniele, che è leggermente più salato del Parma e si conservano in frigorifero.
Quando si servono, si condiscono con 1 cucchiaino di miele.

Sono un invitante antipasto o un insolito elemento da buffet, finché ancora si può cenare in giardino o sul terrazzo.
Questa ricetta è semplice, essenziale, gustosa e divertente: cosa possiamo pretendere di più da così pochi ingredienti e ancor meno fatica?!

Sformatini ai formaggi

A volte faccio un antipastino a base di formaggi che piace sempre a tutti.
Io preferisco come sempre la monoporzione, per i motivi che ho detto tante volte, ma si può anche prepararlo in uno stampo da zuccotto o da budino e capovolgerlo su un piatto da portata da far girare tra i commensali, da cui ognuno si serve.
Questa soluzione è più comoda e veloce quando si è in tanti a tavola e se si offrono più antipasti.
Il gesto di passarsi i vassoi inoltre a mio avviso crea un clima più conviviale: spesso si serve anche il vicino prima di prendere la nostra porzione e questo gesto di cortesia rende più confidenziale il rapporto tra gli ospiti.
Però la monoporzione è più raffinata e si può essere certi che ogni commensale potrà contare sulla stessa quantità di cibo!
Ho già raccontato delle volte in cui i primi si sono serviti con troppa generosità lasciando gli ultimi con appena un assaggio…
Insomma, scegliete come servirlo, ma non trascurate di assaggiare il mio saporito sformatino ai formaggi.

20140619-011321.jpgFriggo nell’olio 100 gr di scalogno affettato sottile, lo scolo, lo salo e lo tengo da parte.
Preparo una besciamella con 1/2 l di latte, 50 gr di farina, 50 gr di burro e un’abbondante grattata di noce moscata.
Aggiungo 100 gr di Parmigiano grattugiato, 100 gr di fontina a piccoli cubetti, 100 gr di prosciutto cotto tritato e 80 gr di gherigli di noci pestati nel mortaio.
Fuori dal fuoco, incorporo una alla volta 3 uova.
Mescolo con cura, divido il composto negli stampini da muffin o da crème caramel imburrati e inforno a bagnomaria a 200° per 15 minuti.
Li sforno, li lascio raffreddare e poi li passo in frigorifero per qualche ora prima di capovolgerli sui piatti individuali.
Completo i miei sformatini con una salsina tiepida (tipo fonduta) che preparo facendo fondere a fuoco dolcissimo 200 gr di gorgonzola a pezzettini con 1 bicchierino di grappa e 125 ml di panna da cucina.
Decoro con altre noci e servo.

Come avrete notato, questi sformatini possono essere serviti anziché all’inizio, anche a fine pasto, data la presenza dei formaggi.
Se prevedete questa soluzione, suggerisco di omettere il prosciutto e aggiungere alla salsa di gorgonzola 2 cucchiai di miele ed ecco pronto un insolito dessert.

El riso co’ l’ua: un insolito risotto con l’uva

Quando il 22 gennaio ho postato la ricetta dei “saltimbocca di sardine” vi ho accennato alla formidabile signora Filomena, ve la ricordate?
Dunque riprendiamo da lì.
Vi raccontavo che quando ero piccola, ma proprio piccola piccola, andavamo “in villeggiatura” al mare in provincia di Venezia, sul litorale del Cavallino, in un isolato casale in mezzo ai vigneti.
Era una costruzione tozza a un piano, separata da una spiaggia infinita e bellissima solo da un centinaio di metri di dune che impedivano la vista del mare.
Era la fine degli anni Quaranta, il mio papà aveva una Balilla nera (prima della serie infinita di FIAT Millecento) e l’Autostrada A4, la Serenissima, non passava ancora per Verona ma la si doveva imboccare a Padova per uscire al Casello di Mestre.
Alloggiavamo in questa sorta di Pensione familiare dove anche gli ospiti paganti mangiavano quello che veniva cucinato per la famiglia, a sorpresa.
A sorpresa perché tutto dipendeva dalla pesca della notte precedente, dalle verdure raccolte nell’orto posteriore, dalla produzione di uova delle galline e dall’estro della signora Filomena.
Era tutto insomma un po’ avventuroso: quando tornavi dalla spiaggia non avevi idea di cosa ci sarebbe stato in tavola.
Finiva a volte che si mangiasse solo polenta con le seppioline, ma a volontà, oppure teglie traboccanti di vongole e telline col sugo di pomodoro in cui intingere fette morbide di pane bianco, scampi e calamari appena fritti o immense omelette con zucchine, pomodori e cipolle, spaghetti con le cozze, cotolette di asià o grosse fette di formaggio fresco locale (la Casatella) dopo un risotto di pesce.
O un risotto con l’uva, che era il mio preferito.
Mi piace ancora, ma non ho quasi mai il coraggio di proporlo, forse perché di gusto troppo amarcord, un piatto decisamente da primo dopoguerra, però così particolare che oggi potrebbe essere considerato addirittura sofisticato.
Volete saperne di più, vero?

20140205-190231.jpgSi fa soffriggere in 30 gr di burro 1 piccola cipolla tritata, si aggiungono 150 gr di lardo (o di pancetta), tritato grossolanamente e si fa rosolare con 1 rametto di rosmarino, che poi si elimina.
Si versano 350 gr di riso, si sfuma con 1 bicchierino di grappa e si cuoce aggiungendo del brodo, come al solito.
Intanto si tagliano a metà i chicchi di un grappolo d’uva bianca (o rosata) di circa 300 gr e si eliminano i vinaccioli.
A cinque minuti dal termine della cottura si uniscono al riso e si prosegue aggiungendo eventualmente il brodo che serve, finché il risotto non è pronto.
Come sempre, fuori dal fuoco si manteca con altro burro e abbondante Parmigiano grattugiato e si insaporisce con molto pepe nero macinato al momento.

Come faccio spesso, anche oggi vi ho rifilato una ricetta della memoria, che magari solo per me ha un senso.
Vi inviterei comunque ad assaggiarlo e a proporlo ai vostri ospiti come un sofisticato e insolito risotto, dati gli ingredienti particolari e curiosi: i miei rimangono sempre molto colpiti dalle mie ricette. E anche dai miei racconti.
Dato però che non è stagione di uva nostrana, perché non provare a sostituire i 300 gr di uva con due grosse mele Royal Gala, sode e profumatissime?
Io l’ho fatto e secondo me nemmeno la signora Filomena ci avrebbe trovato niente da ridire!

Braciole di maiale al vino Teroldego

Il carré di maiale è uno tra i miei tagli preferiti perché in cottura, se adeguatamente arricchito di liquidi e salse, resta morbido ed è molto saporito.
Si può utilizzare intero, anche disossato, per arrosti eccellenti, oppure se ne ricavano delle braciole.
Le braciole si prestano ad essere cucinate in un sacco di modi appetitosi: alla griglia, o farcite con prosciutto e formaggio, impanate e poi fritte, o rosolate in tegame con tàmaro, latte e salvia.
A me piacciono anche cucinate con il vino rosso, perché diventano un piatto adatto ad essere servito persino con la polenta oltre che con le sempre gradite patate: l’abbondante salsa che si forma nel tegame ha un sapore fantastico.

20140130-163345.jpgSi pesta grossolanamente con il batticarne 1 cucchiaio di pepe nero in grani sul tagliere.
Si passano da entrambi i lati nel pepe frantumato 4 braciole di maiale di circa 200 gr l’una, premendole bene col palmo della mano per farlo aderire perfettamente alla carne.
Si adagiano in un tegame con olio e burro e si fanno rosolare da entrambi i lati, si salano e si sfumano con 1/2 bicchiere di ottimo vino rosso corposo e profumato, come per esempio il Teroldego.
Si portano a cottura e si tengono al caldo.
Intanto si deglassa il fondo con 1 bicchierino di grappa.
Si aggiungono 100 ml di panna e si fa sobbollire piano mescolando per far addensare la salsa.
Si rimettono le braciole nel tegame e si fanno insaporire.

Queste favolose braciole si mangiavano in una Stube vicino al Lago di Carezza quando a fine gennaio si faceva la Settimana Bianca coi bambini ed erano cucinate con il vino Teroldego, ma si può senz’altro usare il vino che si preferisce, purché sia rosso e profumato.
Ci venivano servite con patate cotte sotto le braci e polenta abbrustolita: sapori, luoghi, abitudini e giorni di tanti anni fa ormai, che è impossibile dimenticare.
Ma poi, chi si sognerebbe mai di farlo?!

La mia torta di mele Old Fashion

Ho già postato il 24 maggio una ricetta di torta di mele, una crostata in realtà, ma più morbida e ghiotta di quelle pallide e poco fragranti della mia infanzia.
Ho dedicato anche un intero capitolo del libro ai ricordi legati a questo frutto e ai dolci che ci si possono fare, che ho intitolato “Il tempo delle mele”.
Le mele mi piacciono molto. Meno crude, cotte invece letteralmente le adoro.
Le cucino al forno con le uvette il miele e la cannella, ma le faccio diventare anche un contorno per gli arrosti di maiale per esempio, o le inserisco nella preparazione del curry di pollo, ci faccio la mostarda insieme alle bucce di arancia o le metto a seccare in forno per le decorazioni Natalizie.
Ovviamente le sbuccio e le affetto anche per farne delle torte.
Relativamente spesso regalo a mio marito la gioia di fare colazione e merenda con lo Strudel o la Apple Pie, e ne ricavo sempre una gratitudine sconfinata, ma la mia preferita è la più semplice e tradizionale delle torte di mele, quella con appena quel tanto di farina che serve a tenere insieme la frutta e gli altri ingredienti.

Si sciacquano e si mettono a bagno in 1 bicchierino di grappa tiepida 50 gr di uvette.
Si sbucciano, si tagliano in quattro, si privano del torsolo e si affettano sottili 1200 gr di mele Golden Delicious.
In una grossa terrina si mescolano insieme 100 gr di farina, 100 gr di zucchero di canna, 2 cucchiaini di cannella in polvere, 2 uova leggermente battute, 1 pizzico di sale, 1 bustina di lievito vanigliato per dolci, 100 gr di burro sciolto in 1 bicchiere di latte caldo, le uvette (che intanto hanno assorbito tutta la grappa) e le mele affettate.
Si amalgama tutto e si versa in una teglia rettangolare piuttosto grande, la mia è 39×25, imburrata e infarinata.
Si livella e si spolverizza la superficie con altri 50 gr (2 cucchiaiate colme) di zucchero di canna.
Si inforna a 160 gradi per circa 1 ora e 1/4, anche 1 ora e 1/2. La superficie deve presentare una bella crosticina dorata.

20140126-151740.jpgIo non la sformo, perché è piacevolmente umida e morbida, quindi la taglio a quadrotti a mano a mano che mi servono e il resto lo conservo nella teglia.
L’unica concessione “moderna” rispetto all’originale, che si cuoceva nel forno della cucina economica a legna, è l’uso dello zucchero di canna anziché di quello semolato, che io trovo delizioso in questa torta in particolare, perché ha un lontano e delicato sentore di caramello che con le mele sta benissimo.

Una ricetta vintage

La mia cucina è piena di oggetti Vintage.
Non mi riferisco alle cioccolatiere di rame, agli stampi da aspic di vetro o ai sifoni per il seltz, che sono molto più vecchi. Intendo semplicemente alcuni oggetti della nostra Lista Nozze.
Lo zucchero e il sale grosso e fino, per esempio, da quarantaquattro anni sono sempre negli stessi barattoli di porcellana a fiori col tappo in tek accanto ai fornelli, come nella cucina della nostra prima casa. Questa è la quarta. La quarta casa e la quarta cucina intendo.
Il vassoietto ovale della Alessi per i nostri due caffè, le tazze da colazione con le roselline, i coltelli da formaggio, il mortaio e il tagliere di legno sono stati tutti acquistati alla fine degli anni Sessanta, quindi sono ormai decisamente Vintage.
Sarà quindi questa atmosfera retró che aleggia nella mia cucina a suggerirmi spesso ricette datate o addirittura in disuso se non obsolete.
Io faccio ancora le mele cotte, per esempio. Semplici, rassicuranti, antiquate mele al forno, dolci e nostalgiche.

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Meglio di tutto sarebbe poter avere a disposizione le mele di Zevio, dalla caratteristica buccia ruvida, dolci, croccanti e aromatiche, ma vanno bene anche le normali Golden Delicious.

Io lavo bene le mie mele lasciando il picciolo, le dispongo in una pirofila a bordi alti, ben accostate così non si rovesciano.
Sopra ognuna verso 1 cucchiaio di miele, spolverizzo con la cannella, un pizzico di noce moscata e appoggio sulla sommità alcune uvette fatte rinvenire nella grappa tiepida e 1 chiodo di garofano.
Inforno a 180 gradi per 20-25 minuti. Finito.

Sono uno stupendo fine pasto. Ancora tiepide sono eccezionali con una pallina di gelato alla vaniglia. Sono antiquate e irresistibili, perfette per una domenica sera…

Salsa al gorgonzola

Qualche volta avrete voglia anche voi di una pasta semplice e saporita, no?!
Ma non pensate ai soliti rigatoni al ragù, agli spaghetti al pomodoro, al riso coi piselli, a quelle cose un po’ di tutti i giorni insomma, senza pretese e senza grande impegno.
Oggi… “famolo strano”!

Un condimento per le tagliatelle (anche tipo paglia e fieno) per esempio, assolutamente easy, ma di sapore intenso, suggerisco una salsa al gorgonzola che non porta via troppo tempo, ma nella sua semplicità è molto gradevole e in genere gradita.
Appetitosa e cremosa. Insomma: “giusta”.

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Si fanno fondere in un tegamino, a fuoco dolcissimo, 200 gr di gorgonzola dolce, 120 gr di ricotta (oppure robiola o mascarpone), 2 cucchiai di grappa e 1/2 bicchiere di latte. Si aggiunge 1 bustina di zafferano e si mescola fino a che non diventa una crema liscia ed omogenea.
Fuori dal fuoco si incorporano 50 gr di gherigli di noce tritati e si condiscono le tagliatelle aggiungendo 1 o 2 cucchiai di acqua di cottura della pasta, completando i piatti con abbondante pepe nero appena macinato.

Con questa salsa si possono condire anche delle mezze penne rigate, per esempio, o del riso pescato. O addirittura inventarsi una “bruschetta” coprendo a cucchiaiate dei crostoni di pane pugliese affettato e poi passarli un attimo sotto il grill.
Ve l’avevo detto che era una ricetta giusta!