
Da “i tempi andati e i tempi di cottura (con qualche divagazione)” Confesso di essere una di quelle donne che fanno acquisti compulsivi, ma chi non lo è? Una volta, quando ero depressa, annoiata o mi sentivo euforica o insicura … Continua a leggere
Da “i tempi andati e i tempi di cottura (con qualche divagazione)” Confesso di essere una di quelle donne che fanno acquisti compulsivi, ma chi non lo è? Una volta, quando ero depressa, annoiata o mi sentivo euforica o insicura … Continua a leggere
Da “i tempi andati e i tempi di cottura (con qualche divagazione)” Fin dai primi anni del nostro matrimonio abbiamo festeggiato gli anniversari con un weekend romantico si, ma già da allora con un occhio alla cucina. La nostra meta … Continua a leggere
Uno dei piatti più semplici e prelibati che io abbia mai assaggiato, e naturalmente poi riproposto a casa, è un semplice risotto bianco.
Naturalmente c’è un inghippo: in realtà era “avvolto” da due code di aragosta bollite ed era stato cotto con il loro “brodo”, un court bouillon aromatico, profumato e molto raffinato.
Se avete in programma un piccolo festeggiamento per una ricorrenza o un evento a due che richieda una certa classe, prendetelo in considerazione, perché è di una semplicità assurda e se l’occasione consente un budget adeguato, be’ non esitate!
Io ho utilizzato due piccole code di astice surgelate anziché l’aragosta: la misura è perfetta, non c’è scarto, non sono difficili da reperire.
Un court bouillon perfetto per questo piatto si ottiene portando a ebollizione 2 litri d’acqua insaporita con 1 carota a rondelle, 1 gambo di sedano affettato, 1 cipolla tagliata in quattro, 1 foglia di alloro, i gambi di qualche rametto di prezzemolo, 1 foglia esterna di un finocchio, 1/2 cucchiaino di pepe nero in grani, 1 cucchiaino raso di sale marino grosso e 1/2 bicchiere di vino bianco.
Si lascia sobbollire delicatamente, col coperchio, per circa un’ora, poi si filtra eliminando gli odori, si riporta a bollore e si immergono 2 code di astice surgelate decongelate e sciacquate, di circa 400 gr l’una.
Si fanno bollire per una decina di minuti, poi si lasciano intiepidire nel brodo. Si scolano e si rimuove il carapace tagliando dorso e lato inferiore con il trinciapollo, facendo attenzione a lasciare intera la polpa. Si tengono al caldo.
Si prepara il risotto portando a ebollizione 2 tazze di court bouillon (meglio assaggiare per controllare se c’è bisogno di regolare di sale).
Si versa a pioggia 1 tazza di riso, si scuote leggermente il tegame, si cuoce a fuoco medio per circa 15 minuti, cioè fino a che non avrà assorbito il brodo. Si manteca con 40 gr di burro e 2 cucchiai di succo di limone.
Si accomoda sul piatto da portata esattamente al centro, accanto si sistemano le due code di astice che lo devono “abbracciare”.
Si decora con qualche stelo di erba cipollina tagliata con l’apposita forbicina e si porta in tavola, dove si divide equamente in due piatti.
Facile come dicevo, vero? Ma che risultato!
Il risotto è fatto nel solito modo di cui parlo sempre: senza mescolare e il suo volume deve essere la metà del liquido in cui cuocerà.
Il vino che utilizzo per questo court bouillon profumato di finocchio è il Gewurztraminer, aromatico e signorile. Poi lo servo anche con questo piatto, naturalmente.
La cotoletta rappresenta per la nostra famiglia un vero comfort food.
Sarà per la presenza dell’uovo e del suo inconscio significato ancestrale, sarà per la panatura che racchiude qualcosa che può sorprendere nel momento in cui si morde, oppure sarà che, senza stare a raccontarci tante storie, la cotoletta è sempre gradita perché è buona, croccante, saporita e sa proprio di casa.
Questa volta ho impanato e fritto i filetti di sogliola (ma si può usare anche la platessa), che nelle intenzioni dovevano essere invece cucinati alla mugnaia, ma così abbiamo pranzato con molta più soddisfazione.
I passaggi sono sempre quelli, si potrebbero veramente fare ad occhi chiusi: farina, uovo sbattuto con un cucchiaio di latte, pangrattato, uovo e latte, pangrattato.
La doppia panatura garantisce una doppia croccantezza!
Forse l’unica variante questa volta è l’aggiunta di buccia grattugiata di limone ed erba cipollina tritata finissima nella panatura.
Naturalmente, nostro malgrado, le cotolette vanno fritte nel burro spumeggiante.
Si portano in tavola dopo a averle leggermente tamponate con la carta da cucina, salate, pepate, cosparse di erba cipollina tagliuzzata e decorate con fettine di limone.
… ma è tutta scena: le cotolette sono buone sempre, anche senza decorazioni!
A me il cibo gratinato piace almeno quanto quello fritto. Ho una vera predilezione per le classiche crosticine che si formano grazie al pangrattato.
Trovo che, contrariamente al fritto, più problematico per i noti motivi, il gratin si possa cucinare e offrire con più facilità perché si può preparare in anticipo e infornare all’occorrenza senza stress.
Un piatto unico davvero straordinario è una teglia di pesce, gratinata al forno, che si può combinare a seconda del proprio gusto scegliendo i filetti di quei pesci che ci piacciono di più. È un’idea di gusto un po’ francese secondo me molto attraente.
Nel marzo dell’anno scorso ne avevo già proposta una con zucchine e cozze (https://silvarigobello.com/2014/03/06/teglia-gratinata-di-pesce-e-zucchine/), mentre ho assaggiato da poco questa, con salmone, merluzzo e gamberi.
Ve la propongo perché a me questo abbinamento è piaciuto moltissimo, ma come dicevo si può spaziare con fantasia reinterpretando la ricetta secondo il gusto personale.
Si cuociono a vapore filetti di merluzzo e tranci di salmone, privati della pelle e delle lische, per un totale di 800 gr circa.
Si lessano 400 gr di code di gambero in un classico court bouillon, che si conserva, e si sgusciano.
Si fanno imbiondire 2-3 scalogni con una noce di burro, si aggiungono 1/2 litro di court bouillon, filtrato, 1 cucchiaio di maizena e 30 gr di burro e si fa ridurre a fuoco dolce mescolando continuamente, finché non si ottiene una salsa vellutata. Fuori dal fuoco si profuma con 1 cucchiaio di curcuma o di curry.
In una ciotola si riuniscono i pesci tagliati a grossi pezzi e i crostacei, si aggiungono 300 gr di pomodori privati della pelle e dei semi e tagliati a cubetti, 1 ciuffo di basilico tritato, la buccia grattugiata di 1/2 limone e il suo succo, 1 spruzzo di Cognac, sale, pepe e la salsa vellutata ottenuta col court bouillon.
Si unge il fondo di una pirofila con 2 cucchiai di olio e si accomoda il composto livellandolo.
Si cosparge con 3 cucchiai di pangrattato misto a 1 cucchiaio di parmigiano grattugiato e si inforna a 200 gradi per 15 minuti circa.
Quando si è formata una bella crosticina dorata, si sforna e si serve dopo 5 minuti a cucchiaiate.
Lo considero un piatto della domenica, perché potendolo preparare già il sabato, per esempio, non resta che gratinarlo, senza faticare.
A me piace con delle semplici patate lesse condite con olio, sale e prezzemolo.
Più che una ricetta, quella di oggi vuole essere un semplice ma bellissimo suggerimento per servire un sorbetto.
La realizzazione di questi divertenti contenitori è davvero semplice, occorre però avere un freezer capiente o si dovrà abbandonare l’idea.
Per ogni ciotolina che si intende creare occorrono due bicchieri bassi di misure diverse, tipo acqua e vino dello stesso servizio per intenderci.
Si infilano l’uno nell’altro e si riempie l’esiguo spazio fra i due con sottilissime fette di arancia, lime e limone o cedro leggermente sovrapposte. Si riempie d’acqua lo spazio residuo tra i bicchieri cercando di non spostare le fettine di agrumi e si mettono i bicchieri nel freezer.
Naturalmente si tolgono all’ultimo momento e si immergono un attimo in acqua calda. Si sfilano prima i bicchieri esterni e poi con molta delicatezza quelli interni, si appoggiano sui piattini le coppe di ghiaccio che hanno intrappolato le fette di agrumi e si riempiono di sorbetto.
Non occorre raccomandare di servire immediatamente, vero?!
Il pollo è l’ingrediente che più di molti altri si presta ad essere il protagonista di tantissime ricette.
Intero non lo cucino quasi mai, però se il pollivendolo me lo taglia in 8 pezzi e me lo pulisce bene, riesco a cucinare con molta semplicità delle teglie saporite e succulente.
Come questa.
Il segreto perché la carne di pollo resti morbida e succosa è immergerla a lungo in una marinata aromatizzata con ingredienti diversi.
Se si prende l’abitudine di far riposare la carne in frigorifero, anche per tutta la notte, immersa in una marinata, la successiva cottura non l’asciugherà troppo.
Questa abitudine mi viene dalla curiosità con cui cerco sempre di farmi raccontare, spesso dagli stessi chef, se non dai proprietari dei ristoranti che frequento, alcuni dei loro segreti. In verità a volte se li sono lasciati rubare a denti stretti, ma l’essenziale è che ho imparato, tra le altre cose, il trucco della marinata.
Per questa ricetta ho messo in un grosso sacchetto gelo a chiusura ermetica (si comprano anche all’Ikea e sono ottimi): 4 cucchiai di olio, 1 cucchiaio di miele di acacia, 1 bicchierino di Marsala, 2 foglie di alloro, 1 rametto di rosmarino, 2 spicchi d’aglio, il succo di 1 limone e la parte gialla di metà della buccia.
Ho mescolato tutto, ho inserito i pezzi di pollo, li ho “massaggiati” per bene con la marinata, ho messo il sacchetto ben chiuso in una ciotola e riposto in frigo fino all’indomani.
Ho scaldato il forno a 200 gradi. Ho versato tutto il contenuto del sacchetto gelo in una teglia, ho salato, pepato e infornato per una quarantina di minuti.
Ho rigirato i pezzi un paio di volte perché la pelle diventasse dorata e croccante dappertutto.
Insieme al pollo si possono infornare anche delle patate tagliate a metà e si risolve così il problema del contorno.
Forse non tutti sanno che le Crêpes Suzette probabilmente non hanno un’origine francese come siamo sempre stati indotti a pensare, ma a quanto pare sono un’invenzione, forse involontaria, del giovane apprendista Henry Charpentier, al servizio di Auguste Escoffier al Café de la Paix di Montecarlo.
Per non prendermi nessuna responsabilità cito però anche il maître Josèph del Restaurant Marivaux di Parigi che un’altra versione della storia vuole abbia creato queste crêpes per un’affascinante artista dell’Opéra, di nome Suzette, abituale frequentatrice del suo ristorante.
Quale sia la verità non lo sapremo mai, ma quello che conta è che sia arrivato fino a noi questo sofisticato dessert che personalmente adoro e che ho rivoluzionato: le mie crêpes Suzette non le faccio flambé, ma al forno e le farcisco di crema pasticciera. Probabilmente dovrei chiamarle con un altro nome a questo punto, ma così sono comunque riconoscibili.
Non starò ad annoiarvi con la preparazione delle crêpes, perché come ho raccontato nel mio post del 17 ottobre scorso, io le faccio con l’apparecchio della Krupp, ma credo non avrete problemi a prepararne almeno una dozzina in modo tradizionale.
Quello che faccio a questo punto è di mettere su ognuna un cucchiaio di crema pasticciera (2 tuorli, 100 gr di zucchero, 30 gr di farina, 300 ml di latte, 1 pizzico di sale) e chiuderle in quattro a ventaglio.
Le accomodo leggermente sovrapposte in una pirofila e le copro di salsa all’arancia.
La salsa all’arancia per queste scandalose crêpes al forno si ottiene prelevando con il rigalimoni, oppure grattugiandola, la buccia di 2 grosse arance e di 1 limone, che poi si spremono.
Si filtra il succo e si versa in un pentolino.
Si aggiungono 80 gr di burro, 120 gr di zucchero a velo e 150 ml di Grand Marnier.
Si fa cuocere la salsa a fuoco basso, mescolando con un mestolino di legno fino a quando lo zucchero si sarà sciolto completamente.
Quando è pronta si versa sulle crêpes e si infornano sotto il grill per 5-6 minuti. Non si devono asciugare troppo.
Così si perde l’effetto scenico del flambé in tavola, lo so, ma con questo metodo le crêpes si possono preparare in anticipo, sistemare nella pirofila, coprire con la salsa che così le imbeve e infornarle solo pochi minuti prima di servirle.
Non serve precisare che arance e limone sono naturali, non trattati, vero?
Domani è Santa Lucia. È lei che porta i doni ai bambini Veronesi.
Santa Lucia, il suo asinello e l’aiutante Gastaldo avranno una notte impegnativa per poter riuscire a consegnare a tutti i bambini che hanno scritto per tempo una letterina, i doni che hanno chiesto.
Prima di andare a dormire quindi stasera le mamme Veronesi, aiutate dai loro bambini, lasceranno sul tavolo della cucina o sul davanzale della finestra: latte, biscotti, una carota oppure un pugno di sale, così potranno rifocillarsi e riposare un po’.
Domattina al loro posto ci saranno i doni (quelli in kit perfino già montati…) e i dolci tradizionali che il Gastaldo acquista ai “bancheti de la Bra”, le immancabili bancarelle che per tre giorni riempiono la Piazza Bra, per comporre il classico “piatto”.
In un “piatto” come si deve non possono mancare: mandorlato, frolline, torrone, cioccolatini e caramelle, mandorle zuccherate, croccante, datteri, fichi secchi, noci e mandarini.
Naturalmente le moderne composizioni possono variare, ma sono certa che nessuno mi smentirà se affermo che i fondamentali della base classica non possono che essere quelli che ho elencato.
Dalla notte dei tempi nel nostro “piatto” deve esserci soprattutto il croccante!
La ricetta è facilissima, perfino banale e chi non può contare su Santa Lucia riuscirà a preparare da solo un eccezionale croccante alla vecchia maniera.
Si versano 300 gr di zucchero in una casseruola con il succo di 1 limone.
Si fa sciogliere a fuoco dolcissimo mescolando di tanto in tanto con una spatola di legno e quando è diventato di un bel colore ambrato, si aggiungono 300 gr di mandorle.
Si amalgamano bene e si prosegue la cottura mescolando continuamente.
Dapprincipio lo zucchero diventerà ancora bianco e granuloso, ma in breve si scioglierà di nuovo e tornerà a caramellarsi.
A questo punto si versa il composto su una teglia bassa coperta da carta forno oppure direttamente sulla tavola di marmo leggermente unta, come si faceva ai miei tempi!
Per livellare la superficie del croccante si strofina con 1/2 limone e finché è ancora caldo si taglia a quadrati o a rombi.
Si conserva bene in una scatola di latta.
Siccome c’è una filastrocca in vernacolo che recita: “Santa Lùssia vien de note, co le scarpe tute rote…”, quando ero bambina mettevo accanto al latte, i biscotti, il sale e la carota, anche le pantofole di mia mamma, così Santa Lucia poteva togliersi per un po’ le scarpe, che essendo tutte rotte, le dovevano fare male ai piedi.
Sono sempre stata una bambina esageratamente sensibile…
Vorrei inaugurare dicembre con una ricetta adattissima alla stagione.
Ho da molti anni quella del ripieno con cui negli Stati Uniti si farcisce l’oca arrosto, che con il prosciutto glassato cotto al forno è in molte famiglie la portata principale del pranzo di Natale.
Mentre da noi il tacchino compare spesso sulla tavola delle Feste, in America si consuma di preferenza il Giorno del Ringraziamento.
Mi sono sempre chiesta, dato che in America i tacchini, più che i fratelli maggiori dei polli, sembrano i fratelli minori degli struzzi, che dimensioni potranno avere le loro oche…
Comunque, per conciliare il desiderio di provare questa farcia con le mie esigenze personali e i gusti della famiglia, sono ricorsa al collaudato espediente di utilizzare per questo arrosto il solito petto di tacchino fatto tagliare a libro e leggermente battuto.
Si fanno rinvenire 5-6 prugne secche in acqua calda, si tagliano a metà e si snocciolano, si cuociono con 1/2 bicchiere di vino bianco per una decina di minuti, poi si scolano, si tagliano a pezzetti e si versano in una ciotola. Si mette da parte il vino.
Si fanno sobbollire 5-6 albicocche secche in una tazza di succo d’arancia per 5 minuti, poi si sgocciolano, si tritano grossolanamente e si uniscono alle prugne. Si conserva il liquido di cottura insieme al vino in cui sono state cotte le prugne.
Si aggiungono una mela Granny Smith e una pera abate tagliate a cubetti, 80 gr di noci pestate nel mortaio, il succo di mezzo limone e la sua buccia grattugiata, 1 gambo di sedano affettato sottile, 30 gr di burro fuso, 4 foglie di salvia tritate, 3 fette di pancarrè fresco frullato, 1 pizzico di peperoncino piccante, una grattata di noce moscata, 1/2 cucchiaino di cannella, sale e pepe.
Si mescola tutto insieme e il ripieno è pronto.
Si apre la maxi fetta di petto di tacchino, del peso di circa 1,400-1,600 kg e al centro si posiziona la farcia, si richiude, si lega con cura con lo spago da cucina e si fa rosolare in olio e burro con 2 foglie di alloro e 2 rametti di timo.
Si sala, si pepa, si sfuma con 1 bicchierino di cognac, si aggiunge il sugo di cottura di prugne e albicocche e si lascia cuocere col coperchio per almeno 50 minuti.
Si rigira un paio di volte perché si rosoli perfettamente da tutti i lati, si spruzza con 1/2 bicchiere di Porto e si porta a cottura senza il coperchio.
Il sapore di questa insolita farcia è molto gradevole: dolciastro, asprigno, lievemente piccante, aromatico, insomma piuttosto complesso.
La farcia è senz’altro più adatta alle carni grasse dell’oca, ma dato che il petto di tacchino tende ad essere asciutto, al fondo di cottura, filtrato, di questo arrosto insolito e squisito, si può aggiungere una confezione di panna da cucina e un altro bicchierino di Porto.
Una volta che il sugo si è leggermente addensato si serve a parte in salsiera.
Con questa aggiunta il nostro tacchino si crederà una vera oca!