Arista al latte

C’è un arrosto che nella mia famiglia si cucina dal 1800… fa effetto eh? Ma è proprio vero.
La mia bisnonna, la moglie del mugnaio, si chiamava Libera perché era nata nel 1861, anno in cui fu eletto il Primo Re d’Italia e il nostro Paese fu liberato dal giogo Austriaco, ma ve l’ho già raccontato.
Lei ha insegnato a mia nonna Virginia e alle altre tre sue figlie a cucinare molti dei piatti che io gelosamente custodisco, preparo… e adesso condivido spesso con voi.
L’arista di maiale al latte è uno di questi.
È un piatto semplice, genuino, dove il metodo di cottura rende la carne così morbida da sciogliersi in bocca. Fondamentale è cucinarlo insieme ad alcune patate intere (come quelle del pollo zoppo) che si imbevono di sugo e assorbono tutti gli aromi della carne che cuoce per restituire un sapore ricco e profumato ad ogni boccone.

20140521-011525.jpgSi fa rosolare da tutti i lati in olio e burro un pezzo intero di lonza di maiale di circa 1 chilo.
Si aggiungono 2 spicchi d’aglio, 1 rametto di rosmarino, 2 foglie di salvia, 1 foglia di alloro (fatta prima seccare), 2 chiodi di garofano, 2-3 bacche di ginepro, alcuni semi di finocchio.
Si fa insaporire, si sala, si pepa, si sfuma con 1/2 bicchiere di Marsala e quando è evaporato si versa 1 litro di latte caldo, che deve coprire completamente la carne,
Si porta a bollore, si abbassa la fiamma e si fa sobbollire piano a tegame coperto.
Si sbucciano alcune patate meglio se a pasta gialla, che in cottura restano compatte ma morbide e dopo un quarto d’ora si sistemano intorno alla carne.
Si salano appena in superficie e mentre l’arrosto si gira un paio di volte, le patate non si toccano più.
Dopo circa 1 ora si tolgono delicatamente e si tengono al caldo. Si verifica la cottura della carne introducendo uno stecco, che deve entrare senza incontrare alcuna resistenza, ma vale sempre la regola che la carne è cotta quando i grassi sono diventati trasparenti.
Vi accorgerete infatti che il latte si è completamente disunito lasciando in superficie la parte liquida dei grassi mentre sul fondo del tegame è visibile una salsa cremosa ma non compatta.
Si toglie la carne e si lascia intiepidire. Si passa al setaccio il sugo premendo bene con il cucchiaio di legno per recuperare tutta la salsa che ha formato il latte e per eliminare gli odori utilizzati in cottura.
Si affetta l’arista, si accomoda di nuovo nel tegame con tutta la salsa e le patate, si spruzza con 1/2 bicchiere di vino bianco, si scuote perché non attacchi, si lascia evaporare e si serve.

La spruzzata di vino quando si riscalda la carne è utile con qualsiasi tipo di arrosto abbiate scelto di cucinare perché lucida e caramellizza leggermente la carne dandole un sapore molto aromatico.
Oggi naturalmente si può semplicemente eliminare gli odori e le spezie e frullare il sugo ottenendo lo stesso una salsa densa e profumata, ma a me piace continuare ad usare un passino e un mestolo di legno.
Sono fatta così.

La polenta

Ci sono alcuni piatti che fanno talmente parte delle abitudini di famiglia che non ci si fa quasi più caso. Quando si preparano spesso è perché non si ha voglia di impegnarsi, di stare a pensarci su più di tanto. Ci sono, no, le sere in cui si mette insieme una cena che non richiede tutto ‘sto sforzo?!
La polenta è uno degli elementi che appartengono a questa filosofia di cucina.
Una bella polenta condita con ingredienti diversi è appagante e risolve felicemente la cena. Almeno per noi Veneti… per i quali fare la polenta è un’abitudine che richiede sì tempo e attenzione, ma è nel nostro DNA da secoli.

20140511-000745.jpgSi fa dunque la polenta portando a bollore 1 litro d’acqua salata con 1 cucchiaino di sale grosso, abbassando la fiamma e versando a pioggia 250 gr di farina di mais “bramata” sempre mescolando con una frusta.
Quando tutta la farina è assorbita, si alza di nuovo il fuoco, ma facendo attenzione che il bollore non sia troppo vivace.
Ci vorranno 40 minuti perché la polenta sia pronta. Durante questo periodo si mescola ma non in continuazione, soprattutto all’inizio. Si intensifica “l’unto di gomito” verso la fine, quando inizia ad addensarsi. Bisogna fare molta attenzione perché non si attacchi. La polenta è pronta quando mescolandola inizia a staccarsi dalle pareti sfrigolando.
A questo punto si versa su un vassoio da portata o sul tagliere e si condisce come si desidera.

Questa è arricchita con funghi porcini saltati semplicemente in padella con aglio e prezzemolo, rosmarino e lardo di Arnad, che a contatto con la polenta calda si fonde un po’ e rende l’insieme fantastico.
Naturalmente si può scegliere di condirla con un qualsiasi altro ingrediente come salsiccia rosolata, formaggio Gorgonzola, perfino ragù o qualunque altra cosa vi suggeriscano l’esperienza e la fantasia.
Un chiarimento tecnico: la polenta “bramata” è quella a grana leggermente più grossa ed è perfetta per queste preparazioni o per accompagnare gli umidi; il “fioretto” è quella macinata molto fine ed è più adatta per i dolci come gli zaletti per esempio (post del 23 ottobre scorso).

Insolito e spettacolare: l’aspic di filetto

Se Pasqua fosse quest’anno all’insegna del tempo bello e delle temperature tiepide che ci aspettiamo (ci auguriamo e ci meritiamo) si potrà servire come secondo un piatto freddo.
E se non si volesse risolvere con il vitello tonnato, per esempio, si potrebbe prendere in considerazione questo Aspic di filetto, la cui preparazione è complessa e abbastanza complicata, ma si può realizzare con un certo anticipo e a fasi successive, senza sfiancarsi quindi in un’unica giornata e con un risultato incredibile.
È un piatto fatto per stupire e per farsi ricordare.

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Per prima cosa, due giorni prima di quando si intende servire l’aspic, si prepara una versione semplice del paté facendo scottare 200 gr di fegato di maiale a pezzettini con 30 gr di burro e qualche foglia di salvia.
Si aggiusta di sale e si frulla con 100 gr di lardo a cubetti, 200 gr di polpa di maiale macinata, 1 spicchio d’aglio, 1 bicchierino di Recioto Bianco di Soave (o di Sauternes o di Vin Santo), 2 cucchiai di Cognac, 1 tartufo grattugiato (oppure 1 cucchiaino di pasta di tartufo), sale e pepe.
Ottenuto un impasto omogeneo, lo si compatta in una terrina e si inforna a 180 gradi per circa 1 ora e mezza.
Una volta raffreddato si ripone in frigorifero.
Il secondo passaggio è la cottura del filetto.
Si prepara una miscela riducendo a crema uno spicchio d’aglio e aggiungendo 1/2 cucchiaino di zenzero in polvere, sale e una macinata di pepe.
Si unge d’olio tutta la superficie di un filetto intero di vitello (o di maiale) di circa 8-900 gr e si sfrega con la miscela facendola aderire bene.
Si inforna a 200 gradi per circa 40 minuti e una volta cotto si fa raffreddare e si conserva in frigorifero.
Un giorno prima di servirlo, si assembla l’aspic.
Si scaldano 750 ml di brodo leggero e si sciolgono 12 fogli di gelatina ammollati in acqua fredda, si aggiunge 1 altro bicchierino di vino Recioto bianco e si lascia intiepidire appena.
Se ne versa 1 cm sul fondo di uno stampo che possa contenere comodamente il filetto e si mette a rassodare in frigorifero per una mezz’oretta. Sopra si spalma con attenzione circa 1/3 di paté.
Al centro si appoggia il filetto e si riveste con il resto del paté distribuendolo sopra e sui lati.
Occorre lasciare 1-2 cm di spazio dai bordi delle stampo. Questo spazio andrà riempito con il resto della gelatina che coprirà interamente anche tutto il paté.
La preparazione è completata. Basta coprire lo stampo con la pellicola e metterlo in frigorifero fino al giorno successivo.
Al momento di servire, è sufficiente immergere lo stampo per un attimo in acqua calda e poi capovolgerlo sul piatto da portata.

Qualcuno forse potrà farsi intimorire da questo piatto indubbiamente complesso e con molti passaggi, ma ricordate che è un piatto freddo, quindi si può preparare in anticipo e a fasi successive.
Io devo dire invece che questo tipo di preparazioni così articolate mi spingono a provare e costituiscono una grande soddisfazione, ma io ho molto tempo, una grande passione e in fondo anche una certa abilità maturata negli anni.
Ma se questo piatto vi incuriosisce e vi stimola la fantasia, seguite tutti i miei passaggi e i vostri sforzi saranno ripagati da un risultato formidabile.
E volendo c’è tutto il tempo per prepararlo per Pasqua: mancano ancora tre giorni!

Scones salati

Gli scones sono focaccine dolci di origine anglosassone che normalmente si mangiano spalmate di miele, burro e marmellata, o lemon curd, sorseggiando il tè.
Oppure, possono diventare focaccine salate, da farcire di ingredienti golosi e servire con l’aperitivo, tipo una flûte di Prosecco, uno Spritz, un Bellini.

20140304-214239.jpgPer preparare gli scones salati bisogna mescolare in una ciotola con la punta delle dita 120 gr di burro freddo tagliato a pezzettini con 400 gr di farina, una macinata di pepe e un pizzico di sale.
Ottenute delle grosse briciole (come quando si fa la brisè), si aggiungono un po’ alla volta 50 ml di panna, 200 ml di latte, in cui si sono sciolti 2 cucchiaini di lievito per torte salate.
Si lavora l’impasto prima con una forchetta, poi sul piano del tavolo e si stende con il mattarello in uno spessore di circa 2 cm.
Con il coppapasta si ricavano dei dischetti di 4-5 cm di diametro e si infornano a 120 gradi per una ventina di minuti. Devono risultare belli dorati.
Si sfornano, si fanno raffreddare su una gratella, poi si tagliano e si farciscono secondo il proprio estro e la propria fantasia, o secondo quello che si ha in frigorifero.

Il bello di queste libere interpretazioni dei classici (e gli scones sono le più classiche tra le specialità da forno scozzesi) è che non hanno limiti e si prestano ad essere farciti in mille modi.
– Diventano sofisticati con robiola, salmone affumicato, succo di limone e aneto.
– Tranquilli e un po’ scontati con prosciutto di Praga, salsa tartara e provolone.
– Sfiziosi con mascarpone, fichi secchi e prosciutto di Parma.
– Classici con tonno, acciuga, maionese e una fetta di uovo sodo.
– E infine insoliti, come piacciono a me, con pezzetti di pollo arrosto (anche avanzato), burro e salsa di ribes e mirtilli, quella di cui a suo tempo vi ho dato la ricetta.
Teneteveli a mente questi abbinamenti: possono tornare utili anche per i sandwich da portarsi dietro nelle scampagnate di primavera o per un pranzo informale in terrazza o in giardino.

Da involtino ad arrosto farcito

Uno dei miei film preferiti è Frankenstein Junior di Mel Brooks.
Vi ricordate quando Gene Wilder, in preda all’eccitazione urla: “Si… può… fare!”? Ebbene io ho fatto lo stesso!
Sviluppando l’idea de Gli involtini della domenica (post del 25 marzo), confermo che si può fare un eccellente arrosto ripieno di prosciutto cotto e fontina.

20140316-222935.jpgFacile: occorre procurarsi 8-900 gr di fesa di vitello in una sola fetta ben battuta.
Si appoggia sul piano di lavoro, si sala appena, si spargono alcune foglioline di salvia tritate, si copre con 200 gr di prosciutto cotto tagliato a fette spesse e si sistemano sopra, una accanto all’altra 150 gr di fette di formaggio fontina (ma anche di Asiago, a me decisamente più vicino).
Si avvolge la carne tenendo bene all’interno il ripieno, si avvolge in sottili fette di pancetta (quella denominata Piacentina è la migliore) e si lega come al solito con alcuni giri di spago.
Si fa rosolare in un tegame con olio e burro, salvia, rosmarino, timo, alloro e aglio e quando è dorato si sfuma con 1 bicchiere di vino bianco.
Si lascia evaporare, si aggiunge un mestolo di brodo e si porta a cottura a tegame coperto aggiustando di sale e pepe.
Alla fine si toglie l’arrosto dal tegame e si tiene in caldo avvolto in due fogli di alluminio.
Si fa restringere il sugo a fuoco vivace, si filtra e si versa in salsiera.
Si elimina lo spago, si affetta non troppo sottile il nostro grosso involtino e si irrora di salsa.

È un altro arrosto squisito, delicato ma contemporaneamente appetitoso perché tutti gli odori che ho aggiunto gli danno carattere e sapore.
Chi volesse comunque un ripieno ancora più gustoso, potrà pensare di sostituire il prosciutto cotto con la mortadella di Bologna.

Gli involtini della domenica

Ci sono piatti che sono così legati ai ricordi, alla nostra storia, alle abitudini familiari che non andrebbero mai modificati.
Da noi per esempio, da che mi è dato ricordare, finito il periodo strettamente invernale legato ai bolliti con la pearà e le altre salse, prima del vitello tonnato o del roast beef, la domenica si passava attraverso gli involtini.
La mia mamma li preparava la mattina prima di andare a Messa e li cuoceva al ritorno. Li serviva coi finocchi al burro e i piselli al prosciutto.
Naturalmente prima si poteva contare anche sul risotto o le tagliatelle col ragù o i funghi.

20140316-100639.jpgGli involtini che faceva la mia mamma erano sottili paillard di fesa “francese” di vitello, coperte con una fetta di prosciutto cotto e una di fontina tagliata a velo. Questo prima dell’avvento delle Sottilette, che hanno rivoluzionato il mondo delle fettine di formaggio.
Arrotolava la carne attorno al ripieno, fermava ogni involtino con uno stuzzicadenti e li cuoceva in olio e burro, aggiungendo qualche foglia di salvia, sale e pepe bianco e sfumandoli con il vino bianco.
Durante la cottura il formaggio si fondeva, usciva dagli involtini e creava una densa e saporita salsa cremosa sul fondo del tegame.

Non occorre vi descriva la bontà di questa salsa che versata nei piatti a cucchiaiate inglobava anche le verdure.
Io continuo a prepararli nello stesso modo, ma oggi ho aggiunto alcuni fiori di rosmarino che erano irresistibili sul terrazzino della cucina. Anche i miei involtini sono sempre morbidissimi e succulenti.
Proprio mentre scrivevo la ricetta oggi, mi è venuto in mente che potrei provare a fare uno dei miei arrosti farcendolo semplicemente di fontina, salvia e prosciutto cotto.
Lasciatemici pensare che poi vi dico.

Il mio gulasch

Prima che questo strano inverno finisca, mi sono detta, bisogna fare almeno una volta il Gulasch.
E ho rispolverato la ricetta di questo spezzatino di manzo, profumato e speziato che ha una storia antica alle spalle.
Il gulasch è un piatto d’origine magiara che nasce come zuppa: il pasto nomade dei mandriani Ungheresi che in epoca Medievale spostavano il bestiame dalla Puzta ai ricchi mercati Europei.
L’attuale gulasch dunque trae le sue origini dalla carne essiccata cotta con le cipolle che una volta in viaggio i mandriani facevano rinvenire in un brodo di verdure.
Nel tempo la borghesia ha fatto proprio questo piatto povero che durante la dominazione Austriaca si è poi diffuso in tutto l’Impero Austro-Ungarico divenendo una specialità anche nell’Arco Alpino Orientale.
A Verona è poco conosciuto e ancor meno apprezzato, ma secondo me è un piatto eccellente, che ricorda il sapore intenso dei grandi brasati mentre si presenta come uno spezzatino.

20140309-010743.jpgSi fanno appassire in 4 cucchiai di olio 1/2 chilo di cipolle bianche affettate non troppo sottili.
Si aggiungono 800 g di muscolo di manzo tagliato a cubi di circa 3 cm di lato, infarinati e leggermente salati.
Quando la carne è rosolata, si sfuma con un bicchiere abbondante di vino rosso.
Si unisce 1 mestolo di brodo in cui si è fatto sciogliere 1 cucchiaio di paprika dolce e 1 cucchiaino di paprika piccante.
Si rigira la carne e si aggiungono 1 rametto di maggiorana e 1 di rosmarino, 1 cucchiaino di semi di cumino, 1 foglia di alloro e 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro.
Si versano ancora circa 250 ml di brodo e si cuoce a tegame coperto per circa due ore.
Si aggiusta di sale e di pepe e si fa addensare il sugo.
Il gulasch si serve con una polenta morbida, con i canederli o con le patate bollite.

Il gulasch più buono l’ho mangiato a Praga, con gli gnocchi di pane, ma lo conoscevo già per averlo ordinato sulle Dolomiti durante le molte settimane bianche di tanti anni fa.
Alla fine ho imparato a cucinarlo riunendo un po’ le caratteristiche lievemente differenti delle due preparazioni.
Il sapore è intenso ma non troppo piccante e il piatto è senz’altro saporito e profumato, ancora adatto, secondo me, a quello che è rimasto dell’inverno.

Spezzatino di vitello in umido con i piselli

Come ho già detto in un’altra occasione, amo molto gli umidi, gli stufati, i brasati, quei piatti insomma che si possono mangiare con la polenta per esempio, che richiedono cotture lente e sughi profumati, che riempiono la cucina, se non tutta la casa, di aromi speziati e intensi.
Sono piatti tipicamente invernali e nonostante quest’anno non ci siano state molte giornate di freddo pungente, ma piuttosto di pioggia fastidiosissima, ho fatto finta di niente e ho cucinato sia l’ossobuco che lo spezzatino, lo stracotto e anche una fricassea di vitello.
A mio marito piace molto il tradizionale spezzatino di vitello coi piselli. E a voi?

20140130-173804.jpgCi vogliono 800 gr di polpa di vitello tagliata a cubetti di circa 3 cm di lato. A me piace la punta di petto perché resta molto morbida in cottura, ma si può optare anche per tagli più magri.
Si infarinano i pezzetti di carne e si scuote via la farina in eccesso, poi si rosolano in una casseruola con olio e burro.
Si aggiunge un trito composto da 2-3 scalogni e 2 costole di sedano, gli aghi di 1 rametto di rosmarino tritati e anche 1 foglia di alloro, 2 chiodi di garofano, 2 bacche di ginepro, 1 spicchio d’aglio intero e 1 pezzetto di buccia di limone.
Si aspetta che la carne si insaporisca, poi si sfuma con 1/2 bicchiere di vino bianco.
Quando è evaporato si aggiungono 2 mestoli di brodo e 1 tazza di salsa di pomodoro, si aggiusta di sale e pepe, si unisce 1/2 cucchiaino di zucchero e si prosegue la cottura per un’ora e mezza circa.
Si recuperano lo spicchio d’aglio, la buccia di limone e la foglia di alloro, magari anche i chiodi di garofano e le bacche di ginepro se ce la fate e si uniscono 400 gr di piselli sgranati.
Si sala appena e si mescola di tanto in tanto delicatamente. Si cuoce per altri 20-25 minuti circa, finché i piselli diventano teneri.
Si cosparge di prezzemolo tritato e si serve caldissimo.

Lo spezzatino di vitello coi piselli, nonostante la premessa, noi in genere non lo mangiamo con la polenta, ma con fette di ciabatta croccante.
Ci piacciono queste consistenze diverse che creano una sensazione gradevole e gradita al palato.
E poi la scarpetta viene da sogno!

Al lardo! Al lardo!

Al lardo, al lardo?!
No, in effetti sarebbe: “Al ladro, al ladro!” ma dato che oggi voglio parlare di un controfiletto insaporito dallo squisito lardo d’Arnad e non temendo nessun furto, mi sono voluta divertire con un piccolo gioco di parole!
Al contrario sarò molto felice se anche questa ricetta verrà stampata, trascritta, salvata, “rubata” e riutilizzata!
Il controfiletto al lardo è un piatto succulento e saporito che ho mangiato in Valle d’Aosta, come la carbonada di filetto e l’arrosto di girello, robusti piatti montanari pieni di personalità e molto ghiotti.
Piatti adatti alla stagione, che in genere vengono accompagnati da una bella polenta morbida arricchita spesso di formaggio fontina a cubetti, una vera goduria.

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Si stecca un pezzo intero di controfiletto di manzo del peso di 8-900 gr con 2 spicchi d’aglio a filetti e 150 gr di lardo d’Arnad tagliato a bastoncini, praticando dei fori nella carne con un coltello dalla lama sottile.
Si dà qualche giro di spago da cucina perché resti in forma e si fa insaporire in tegame con 3 scalogni affettati sottili e 2 rametti di rosmarino.
Si sala appena, si aggiusta di pepe, si sfuma con 1 bicchiere di vino bianco, si aggiunge 1 mestolo di brodo e si procede nella cottura a fuoco dolce, con il coperchio, per una mezz’ora circa, rigirando la carne un paio di volte e irrorandola di tanto in tanto col suo sugo.
Una volta cotta, si toglie dal tegame e si tiene in caldo. Nel frattempo si filtra il sugo, si deglassa aggiungendo un bicchierino di Cognac, si fa evaporare e si cuoce ancora per qualche minuto a fuoco vivace.
Si affetta la carne e si serve coperta di sugo ben ristretto.

Con o senza polenta, varrebbe proprio la pena di farlo per gustare un piatto ghiotto e succulento che ci rallegri un po’ in questi giorni di tedioso febbraio umido e ventoso.

Pasta e fagioli senza pasta

20140129-182542.jpgCon questa ricetta concludo la trilogia della pasta e fagioli.
Dopo quelle “con” (le cotiche e le cozze) oggi una ricetta “senza” (pasta).
La mia ricetta infatti non contempla l’uso della pasta, ma diventa cremosa grazie all’aggiunta delle patate.
Per questa minestra (come per qualche altra) utilizzo la pentola a pressione, ma chi non l’avesse o non fosse abituato ad usarla, può seguire la stessa ricetta allungando solo i tempi di cottura a due ore circa.
Procedo in questo modo: affetto sottilissima 1 bella cipolla bianca e la faccio appassire con qualche cucchiaiata di olio senza farla colorire, nella pentola a pressione, che avendo il fondo molto spesso facilita questo primo passaggio. Salo un po’ subito così, come dico sempre, la cipolla emette la sua acqua e resta morbida.
Con pazienza, mescolando di tanto in tanto ed eventualmente aggiungendo qualche cucchiaiata d’acqua, aspetto che la cipolla diventi trasparente. Ci vorranno 20 minuti circa.
Non abbiate fretta, è proprio la lunga e lenta cottura della cipolla che dà a questa minestra un ricco sapore d’antan.
Aggiungo adesso 100 gr di pancetta tritata (o di grasso del prosciutto), gli aghi di 1 rametto di rosmarino, 2 patate a cubetti e 300 gr di fagioli secchi di Lamon, sciacquati accuratamente e lasciati a mollo tutta la notte in acqua fredda.
Unisco 1/2 litro di brodo vegetale, chiudo la pentola a pressione e a partire dal fischio faccio cuocere per 40 minuti. Spengo e lascio la minestra a continuare la cottura fuori dal fuoco per un’altra mezz’oretta.
Apro il coperchio, col minipimer a immersione frullo la minestra, che deve risultare molto densa e cremosa e la servo con formaggio parmigiano grattugiato e crostini fritti nell’olio passati a parte.

Questa dunque non è una ricetta tradizionale in senso stretto, ma è la ricetta della mia famiglia. Si è sempre fatta in questo modo e da più o meno 50 anni sempre in pentola a pressione.
Riproporla nel blog è il solito modo affettuoso per condividere e ricordare.