Un intrigante ragù di zucca e gamberetti

Spaghetti alla chitarra freschi o secchi…
Un ragù di zucca, perché è di stagione ed è buonissimo…
Quei gamberetti che in freezer non mancano mai…
Gli ingredienti principali ci sono tutti, allora perché non mettere insieme un piatto di quelli che ti fanno dire: “Ah, però”, perché così goloso, così insolito e ben bilanciato, non te lo aspettavi neanche tu?!

20140130-180811.jpgSi parte dalla zucca.
Non ve ne indico una qualità in particolare: andrà bene quella della vostra zona che siete abituati a cucinare.
Ne occorrono 300 gr (di polpa, già privata di semi, filamenti e scorza), che si riduce a dadini piccoli piccoli.
Si fanno imbiondire con 30 gr di burro (in una casseruola che possa contenere poi anche la pasta) 2 scalogni e qualche foglia intera di salvia, che poi andrà eliminata.
Si aggiunge la zucca, si versa 1 mestolo di brodo e si porta a cottura mescolando ogni tanto: in circa 15 minuti dovrebbe diventare morbida e quasi sfatta.
Si aggiusta di sale e di pepe.
Si aggiungono 150 gr di gamberetti (già sgusciati e lessati) tagliati a pezzetti e 2 cucchiai di acqua di cottura degli spaghetti, che nel frattempo sono stati lessati al dente.
Si mescola, si versa nella casseruola la pasta scolata e si spadella aggiungendo 1 cucchiaio di olio crudo e 2 cucchiai di ricotta, oppure mascarpone, Philadelphia, robiola o al limite panna da cucina, quello che avete in frigo insomma.
Si serve subito cosparsa di prezzemolo tritato e di zucca (cruda) grattugiata… francamente più per l’effetto visivo che per il sapore.

Le idee migliori vengono sempre quando si utilizza un ingrediente che andrebbe bene anche da solo, ma che con l’aggiunta di qualcosa in più diventa una ricetta prelibata, vero?
È il caso di questo ragù di zucca, che si sarebbe potuto limitare a diventare il condimento di un tranquillo risotto, ma che con l’aggiunta dei gamberetti (che con olio, limone e un’insalata avrebbero risolto un pranzo veloce), diventa invece un vero piatto da gourmet.
O come direbbe Joe Bastianich: “Un piatto di ristorante”. O no?!

Pollo in umido (Polastro in tecia)

Se non è questa la stagione degli umidi!
Caldi e corposi piatti ricchi di sapori complessi e aromi fusi in un’unica armonia.
Sì, adoro il cibo e mi piace cucinarlo pretendendo il massimo dagli ingredienti e dalla stagione.
Infatti associo sempre all’inverno le carni in umido, come lo spezzatino di vitello, il gulasch di manzo, i sontuosi brasati profumati di vino e spezie e anche il semplice, casalingo e squisito pollo in tegame, che nella tradizione Veneta altro non è che il “Polastro in tecia”.
Nelle nostre campagne il pollo, l’anatra, il coniglio, dalla notte dei tempi l’hanno sempre fatta da padroni sulle tavole della famiglie nelle zone rurali, molto più del manzo o del vitello.
Il pollo ha continuato il suo cammino verso la gloria culinaria anche in un’epoca più vicina a noi, interprete principale di molte ricette innovative e gustose.
Questo semplice spezzatino di pollo è sempre lo stesso, invece, che viene dal ricettario (orale) di casa di mia nonna e non delude mai.

20140128-002604.jpgSi mettono in una casseruola 2 carote, 1 cipolla e 2 coste di sedano tritati non troppo fini e si fanno soffriggere a fuoco basso con 2-3 cucchiai di olio.
Si aggiunge 1 pollo tagliato a pezzi e si fa rosolare a fuoco vivace, si sala, si insaporisce con una macinata di pepe, si spruzza con 1/2 bicchiere di vino rosso e si fa sfumare.
Si uniscono 1 foglia di alloro, 1 di salvia e 1 rametto di rosmarino avvolti insieme e legati per facilitare alla fine la loro eliminazione e 1 spicchio d’aglio schiacciato.
Si bagna con 1 mestolino di brodo, si copre e si cuoce per circa 20 minuti rigirando i pezzi di pollo un paio di volte.
Quando sono cotti e i grassi sono diventati trasparenti, si estraggono dal tegame, si liberano della pelle, si disossano, si “sfilacciano” con i rebbi di una forchetta e si rimettono a scaldare per qualche minuto.
Si eliminano gli odori e si versa a cucchiaiate questo pollo squisito su una bella polenta morbida.

Una ricetta semplice, molto gustosa, un po’ antiquata d’accordo, ma con il vantaggio di poter essere preparata in tempi relativamente brevi pur avendo il sapore e la consistenza dei grandi piatti in umido dalle lunghe cotture.
Se non lo sfilacciate e aggiungete della polpa di pomodoro… ecco il pollo alla cacciatora!
E ci potete aggiungere anche dei funghi.
Oggi praticamente due ricette al prezzo di una!

Saltimbocca di sardine

Strana cosa i ricordi…
Questo piatto viene da molto lontano, più nel tempo che nello spazio per la verità: era il cavallo di battaglia della signora Filomena, anzi uno dei tanti cavalli del suo branco infinito di prelibatezze.
Della signora Filomena e delle vacanze al mare con i miei genitori in provincia di Venezia, agli inizi degli anni Cinquanta, magari vi parlo un’altra volta, quando mi verranno in mente anche altre delle sue fantasiose ricette.
Oggi vi racconto di un piatto da lei reinventato, o forse casualmente inventato di sana pianta, che cucinava utilizzando quello che il pescato del giorno e la dispensa offrivano in quel momento.
Si tratta di sardine preparate come i saltimbocca alla Romana, con prosciutto e salvia, dal gusto forte e rassicurante di certi piatti di casa.
Se questi sono sapori che vi incuriosiscono o che conoscete e amate già, vi raccomando vivamente l’assaggio.

20140121-144651.jpg
Vi occorreranno 600 gr di sardine che se glielo chiedete gentilmente e in pescheria non c’è troppa gente, il vostro pescivendolo vi preparerà eliminando le teste e le interiora e una volta aperte a libro, anche la lisca centrale.
Se non è disposto a usarvi questa cortesia, ahimè è un’operazione che dovrete farvi da soli una volta a casa… e questo è uno dei casi in cui finisco col comprare la coda di rospo!
Comunque, diamo per scontato che siate nella vostra cucina con quelle che sono diventate dopo la decapitazione e l’eviscerazione circa 450-500 gr di sardine.
Le dovrete sciacquare e poi tamponare, aperte, con la carta da cucina.
Si salano appena e si pepano, si cospargono di buccia di limone grattugiata, prezzemolo e origano, si richiudono e si avvolgono ognuna in 1/2 fettina di prosciutto crudo fermata da uno stecchino che trattiene 1 fogliolina di salvia fresca.
Una volta completata questa operazione si cuociono brevemente in una padella appena unta d’olio, oppure sulla griglia se preferite, rigirandole una sola volta con l’aiuto di una paletta.

I miei ricordi mi suggeriscono che questi saltimbocca di sardine appena pescate e profumate di mare, insaporite da un intrigante prosciutto appena un po’ salato, venissero accompagnati da grandi insalate di cetrioli, pomodori, lattuga, rucola e cipolla, in grosse terrine di terracotta smaltata.
Chissà se era proprio così. Questa è comunque l’insalata che servo con questo piatto e anche se i miei ricordi mi ingannanassero, purtroppo non c’è più nessuno a smentirmi.

I tortelli alla Mantovana (ossia i ravioli di zucca)

Il giorno dell’Epifania siamo andati a Gonzaga, che è un classico paese della Bassa Mantovana, di quelli caratterizzati da una piazza centrale molto ampia, coi portici sui lati lunghi, dove d’inverno ristagna sempre un velo di nebbia e d’estate si muore dal caldo.
Ci andiamo perché c’è uno di quei mercatini dell’Antiquariato che ci piace frequentare, quelli che ci offrono la scusa e l’occasione per muoverci di casa e fare una passeggiata divertendoci.
Senza la pretesa di fare anche dei buoni affari. Ma non senza la speranza.
Questo particolare mercatino si tiene la IV domenica dei mesi che ne hanno cinque e durante tutte le festività infrasettimanali.
Lo so, sembra difficile, ma poi si impara.
Proprio in piazza c’è un posto carino dove si può mangiare un piatto caldo e riprendersi dalle fatiche derivanti dall’impegno di setacciare tutte la bancarelle!
Ovviamente io mangio sempre i Tortelli alla Mantovana, li adoro.

20140114-103912.jpgLa cucina Mantovana è opulenta e saporita, un connubio imprescindibile e perfetto tra la rustica tradizione contadina e la ricercatezza delle tavole nobiliari.

La caratteristica di questi tortelli, o ravioli, è il ripieno, molto particolare, a base di zucca, ma non è finita qui.
Si comincia affettando, sbucciando e liberando dai semi e dai filamenti 1 chilo e 1/2 di zucca. Si inforna in una teglia a 180 gradi per circa 45 minuti: la polpa deve risultare tenera e asciutta.
Si taglia a tocchetti e si frulla con 150 gr di mostarda Mantovana (quella di mele cotogne, mi raccomando), 150 gr di grana Padano grattugiato, 50 gr di amaretti, la scorza grattugiata di 1/2 limone, 1 uovo intero, sale, pepe e noce moscata.
Si lascia riposare l’impasto e intanto si tira la sfoglia, che si fa solo con i tuorli e una piccola aggiunta d’acqua e non con le uova intere.
Per 500 gr di farina occorrono 14 tuorli, 2-3 cucchiai d’acqua e 1 pizzico di sale. Se avete l’impastatrice, meglio, perché il composto è piuttosto tenace.
Se vi fate la pasta come siete abituati fa lo stesso, ho suggerito questa alternativa solo per amore di precisione, in onore alla fastosa cucina Mantovana.
Si lavora a lungo, poi si stende la pasta molto sottile.
Su una metà si appoggiano con un cucchiaino dei mucchietti di ripieno distanti l’uno dall’altro 5-6 cm, si ripiega sopra l’altra metà della sfoglia, premendo delicatamente con le dita si fa uscire l’aria e si ritagliano i ravioli, sigillandoli, con l’apposito coppa pasta dentellato, quadrato o rotondo.
Si lessano e si condiscono con abbondantissimo burro e salvia oppure (e questo lo consiglio) con un battuto grossolano di pancetta Piacentina saltata in padella con del rosmarino tritato.

È davvero un piatto irresistibile. Meno male che il Mercatino di Gonzaga non c’è tutte le settimane!

Costine di maiale al latte

Questo è un piatto squisito, di quelli che nelle case di campagna della nostra infanzia non mancavano mai.
Allora c’era un tempo per ogni tipo di cibo, le stagioni seguivano un ritmo rigoroso e al momento giusto si cucinavano le costine di maiale, che si chiamano anche puntine o spuntature a seconda della regione.

20140112-015417.jpgLa Giulietta le fa ancora e le vengono tenere, succulente e profumate.
Vi dico subito come le cucina, perché sono sicura che da questa ricetta, se la vorrete provare, trarrete grande soddisfazione.
È un insieme di sapori antichi ma non dimenticati, che mi riportano indietro nel tempo, quando il profumo di casa era un insieme di cibo e d’amore e le mani di mia nonna odoravano di buono.

Occorrono 1 kilo di costine belle carnose (fatte tagliare a pezzi dal macellaio) che si fanno rosolare a fuoco vivace in un tegame antiaderente senza nessuna aggiunta di grassi, semplicemente con 3 spicchi d’aglio in camicia, 1-2 scalogni tagliati in quattro e 1 rametto di rosmarino avvolto in 2-3 foglie di salvia e legato con qualche giro di spago da cucina, così in cottura non perde gli aghi e si elimina poi facilmente.
Quando la carne di presenta leggermente arrostita, si sfuma con 1/2 bicchiere di vino bianco, si insaporisce con 1/2 dado sbriciolato e 1/2 cucchiaino di tàmaro.
La conoscete questa spezia, o meglio questo mix di spezie? Lo chiedo perché non a tutti è familiare, mentre in Veneto se ne fa largo uso quando si cucina la carne di maiale, siano costine “in tecia”, arista al forno, filetto in crosta o braciole ai ferri. È un insieme di semi di coriandolo, anice stellato e finocchio, cannella e chiodi di garofano. Ha un profumo intenso e inconfondibile, molto caratteristico, che col maiale è perfetto.
Tornando a noi, si aggiunge circa 1/2 litro di latte tiepido (le costine devono essere coperte a filo) e si porta a cottura a fuoco dolce.
Si eliminano l’aglio e gli odori e si serve con il purè oppure con la polenta. O con entrambi.

Con questo metodo di cottura, coperte di latte, le costine non possono che restare morbide, le spezie le rendono appetitose e conservano un confortante sapore di casa che scalda il cuore.
E va bene così: in fondo è un piatto invernale.

Fettuccine ai porcini

A me succede spesso di finire gli arrosti e restare con una discreta quantità di sugo. Colpa mia.
Per il timore che la carne non sia abbastanza morbida e succulenta, non lesino mai sul condimento. Quello che resta, se è davvero abbondante, in genere lo surgelo e lo riutilizzo per insaporire un semplice riso alla Parmigiana o per rinforzare altri sughi per la pasta.
Veniamo al dunque. Nel freezer avevo dei bellissimi porcini (acquistati in stagione dal fruttivendolo Pakistano), che avevo mondato, affettato e insacchettato perché come sempre non sai mai quando ti possano tornare utili.
Insomma per farla breve li ho usati per un sugo con cui condire le fettuccine.

20131230-101826.jpgHo fatto imbiondire 2 spicchi d’aglio schiacciati in olio e burro, li ho eliminati, ho aggiunto nel tegame i funghi affettati ancora surgelati, li ho cotti rapidamente a fuoco alto, ho salato, pepato e cosparso di prezzemolo tritato.
A questo punto, per condire la pasta come siamo abituati, generalmente avrei aggiunto della panna, ma avevo a disposizione questo saporito sugo d’arrosto, con quel suo retrogusto di vino, rosmarino, salvia e il sapore che la carne aveva rilasciato.
L’ho aggiunto ai funghi, ho lessato e scolato al dente le fettuccine, le ho unite al condimento e spadellate aggiungendo un trito di salvia fresca e abbondante Parmigiano.

Fatto. Veloce e squisito nonostante sia in fondo un sugo di recupero.
Come altro chiamereste il sugo dell’arrosto sottratto alla scarpetta… non di Cenerentola ma dei vostri commensali?

L’arista con il cotechino

C’è un arrosto che a casa nostra non manca mai a Natale: l’arista con il cotechino.
La faccio da minimo quarant’anni e nonostante proponga ogni anno anche un secondo e a volte un terzo arrosto sempre differenti, in tavola lei è sempre presente.
È una tradizione e un caro ricordo di molti felici Natali passati con tutta la famiglia in case più piccole, in case di campagna, in palazzi del centro storico e anche qui dove abitiamo adesso.
L’esecuzione è semplicissima, il risultato più che apprezzabile e a parte la storia di famiglia che si porta dietro, è davvero un piatto molto buono.

20131229-100940.jpgServe un eccellente cotechino, che si cuoce nel solito modo. Gli si toglie la pelle finché è ancora caldo, altrimenti l’operazione diventa piuttosto complicata e poi si fa raffreddare
Si acquista un pezzo di carré disossato di maiale (lonza) che pesi il doppio del cotechino e la si fa aprire a libro dal solito cortese macellaio. Si ottiene così una di quelle bisteccone alle quali vi state abituando da quando mi sentite parlare tanto spesso di arrosti farciti!
La si apre sul piano di lavoro, al centro si posiziona il cotechino, freddo e spellato, e gli si arrotola attorno la carne racchiudendolo al suo interno.
Si lega con alcuni giri di spago da cucina e si fa rosolare da tutti i lati in olio e burro con 2 spicchi d’aglio, 1 rametto di rosmarino, 2-3 foglie di salvia e 1 di alloro, 2 chiodi di garofano e 3-4 bacche di ginepro.
Si sfuma con 1 bicchiere di vino bianco, si aggiunge 1 mestolo di brodo, si sala appena, si pepa a proprio gusto e si cuoce a fuoco basso per un’oretta e mezza, rigirandolo un paio di volte.
Per controllare la cottura bisogna fare la prova stuzzicadenti, che deve penetrare con facilità nella carne, oltre ovviamente tener presente la regola di mia nonna che dice che il cibo è cotto alla perfezione quando i grassi diventano trasparenti.
A cottura ultimata dunque, si toglie l’arrosto dal tegame, lo si libera dallo spago e si fa raffreddare completamente.
Si filtra il sugo di cottura, si affetta l’arrosto, si rimette nel tegame con le fette leggermente sovrapposte e si scalda, coperto, per qualche minuto, spruzzandolo eventualmente con altro vino.
Raccomando la massima attenzione nel trasferire le fette dal tegame al piatto di portata perché il cotechino non fuoriesca dal suo involucro di carne rovinando la presentazione.

In pratica può ricordare il “cotechino in gabbia” Emiliano, ma se non sbaglio questa versione prevede anche uno strato di sottili crêpes e uno di spinaci ripassati al burro all’interno della fetta di lonza, prima di inserire il cotechino.
Il mio è molto più semplice. E stavolta è anche veramente l’ultimo arrosto farcito del 2013!

Lo stampo dei Grandi Magazzini Lafayette

“Confesso di essere una di quelle donne che fanno acquisti compulsivi, ma chi non lo è?”
Questa frase apre il VI Capitolo “Shopping a Saint Tropez” del mio libro e spiega una delle mie debolezze, della quale parlo anche nel IX, “Coppapasta e dintorni”.
Da un pezzo ormai, dai miei viaggi soprattutto all’estero, porto a casa stupendi accessori per la cucina, che mi sono resa conto in Italia arrivano con qualche anno di ritardo.
Per un certo periodo quindi sono in vantaggio rispetto alle amiche appassionate e abili in cucina nella presentazione dei miei piatti.
Per esempio, l’ultima volta che siamo stati a Parigi, un paio d’anni fa, ai Grandi Magazzini Lafayette, ho comprato oltre ad un’infinità di profumi, un servizio in melamina fumè per i pranzi freddi in terrazza (un giorno ve ne parlo più approfonditamente, promesso) e uno stampo in silicone di una bellezza e di uno chic, che non ti puoi sbagliare: è francese. È persino color bronzo cangiante!
Quest’anno l’ho usato per dare al mio tradizionale paté di fegato, che a Natale non manca mai tra gli antipasti, una forma e una guarnizione molto sofisticate.

20131228-100154.jpgNel Capitolo “A volte bisogna avere fegato” propongo tre varianti di paté di fegato di vitello, tutte molto valide e, diciamocelo, molto francesi.
Quest’anno anziché accompagnare la più tradizionale delle tre con la concassè di mele o con i fichi secchi, ho decorato questa specie di piccolo castello sulla Loira, in modo più creativo con la mostarda di Cremona, ma solo di ciliegie, con un risultato molto gradevole alla vista e altrettanto al palato.
Una specie di proposta fusion insomma!
Questa presentazione è stupenda anche sul tavolo da buffet dell’ultimo dell’anno e se non siete stati di recente a Parigi, be’ potete utilizzare uno stampo da budino di quelli scanalati e avere lo stesso un successo assicurato.
La ricetta del paté non occorre che ve la dia, vero? Tanto il mio libro c’è l’avete tutti, no?!

Non sono stata io!

In questi giorni che precedono le Feste, vivo sentimenti contrastanti.
Sono felice ed eccitata mentre preparo la casa e studio un menù adatto alla lieta ricorrenza del Natale e contemporaneamente sento maggiormente la mancanza di chi non c’è più e vorrei tanto avere ancora intorno, a fianco, di fronte, mentre mi devo accontentare di averli semplicemente nel cuore.
È proprio in queste situazioni che adoro ricreare, anche in cucina, momenti che mi riportino indietro nel tempo e mi facciano rivivere il calore e gli affetti familiari di tanto tempo fa, per esempio con la pasta fatta in casa.

20131214-094249.jpgOggi mi piacerebbe proprio vantarmi di aver preparato (senza l’aiuto del KitchenAid e della macchina per la pasta Imperia) questo stuolo di lasagnette, tagliatelle e tagliolini rigorosamente impastato a mano e tirato col mattarello, ma il merito è della Giulietta.
Le matassine di pasta che vedete sul tavolo, le ottiene con una tecnica geniale e semplicissima: arrotola con la punta delle dita all’interno di una coppetta da macedonia una collaudata quantità di pasta appena tagliata e poi la capovolge sulla tovaglia per farla asciugare. Questa è esattamente una porzione.
Io mi limiterò a cucinare un sugo di piselli per le lasagnette, magari uno di funghi per le tagliatelle e uno di fegatini per i tagliolini.
Li sto chiamando “tagliolini” per rispetto dei non Veneti che mi stanno seguendo, ma quest’ultimo piatto, particolare e tradizionale quanto la pearà, si chiama a Verona: “paparèle in brodo coi figadìni” ed è un classico della domenica e delle Feste in generale.
Io la ricetta ve la do. Magari, se pensate possa non piacervi, tenetela in considerazione solo come curiosità.
Se invece amate per esempio il paté di fegatini, provatela, che poi ne parliamo.

Si affetta molto sottilmente una cipolla bianca e si fa soffriggere nel burro con 2-3 foglie di salvia intere.
Appena appassisce e diventa dorata, si aggiungono 300 gr di fegatini di pollo, privati del grasso e del sacchettino del fiele, lavati e tagliati a pezzettini.
Si salano, si insaporiscono con un giro di pepe bianco macinato al momento e si portano a cottura mescolando di tanto in tanto.
Nel frattempo si porta a ebollizione 1 litro e 1/2 di ottimo brodo di carne e si versano 300 gr di tagliolini, che cuoceranno in un attimo.
Si trasferiscono le “paparèle in brodo” in una zuppiera, si aggiungono i “figadìni” e si porta in tavola con una formaggiera colma di grana grattugiato.

Questo era invariabilmente il primo piatto domenicale della mia infanzia, diventato ormai una di quelle rare specialità che si mangiano nei classici ristoranti di vecchia tradizione perché quasi nessuno ormai le cucina più.
Salvo forse la Giulietta e la Silva.

Un nuovo arrosto farcito

Avevo promesso (o minacciato) che prima di Natale avrei proposto altri arrosti conciati per le Feste…!
Eccone dunque uno nuovo, creativo e squisito. Dovete amare però i contrasti di sapore.
Quello di oggi è un classico della cucina del Nord: un filetto di maiale farcito di prugne, un taglio di carne saporito e relativamente economico, che preparato secondo la mia ricetta non ha niente da invidiare alla più pregiata fesa di vitello o al filetto di manzo.

20131209-102054.jpg

Per prima cosa, già la sera precedente si lasciano in infusione con 1 bicchierino di Cognac e 1 di Marsala 10-12 prugne secche denocciolate.
La mattina successiva avranno assorbito tutto il liquido alcolico e saranno belle gonfie.
Una per una andranno avvolte in una fogliolina di salvia fresca e poi in 1/2 fettina di pancetta affumicata e tenute al fresco fino al momento di utilizzarle.
Si mettono sul piano di lavoro, sopra un foglio di carta forno, circa altri 200 gr di pancetta affumicata, a fettine sottili, ben accostate fra loro.
Si pratica un taglio profondo nel senso della lunghezza in un filetto di maiale intero di circa 1 chilo.
Si appoggia la carne sulla pancetta, si spalma l’interno del taglio con 1 cucchiaino di senape miscelato con 1 cucchiaino di miele e si riempie con le prugne.
Si accostano i due lembi del taglio e si avvolge il carré nella pancetta aiutandosi con la carta forno.
Si lega con diversi giri di spago da cucina e si fa dorare con olio e burro in una teglia da forno non troppo grande, nella quale l’arrosto ci stia di misura.
Si sfuma con 1/2 bicchiere di vino bianco, si aggiungono 1 grossa cipolla affettata, 2 mele private del torsolo, tagliate in quarti ma non sbucciate, 2 rametti di rosmarino e 2 spicchi d’aglio.
Si bagna con 1 mestolo di brodo e si inforna a 180 gradi per circa 1 ora.
Si gira un paio di volte durante la cottura ed eventualmente si copre con l’alluminio perché la pancetta non si abbrustolisca troppo. Se occorre si aggiunge ancora un po’ di brodo.
A cottura ultimata si toglie l’arrosto, lo si libera dello spago e si lascia leggermente intiepidire prima di affettarlo e disporlo sul piatto da portata.
Nel frattempo si frulla il fondo di cottura e si passa al setaccio per versarlo in salsiera e servirlo a parte.

Provate a completarlo con un’insalata di spinacini, cipollotti freschi, sedano e mele condita semplicemente con aceto balsamico, olio, pepe e sale: gli darà un fresco contrasto croccante molto gradevole.