Sfoglia ai funghi

Non è che le torte salate siano proprio la mia specialità, ma di tanto in tanto ne preparo qualcuna, nel senso che rivesto di pasta (sfoglia o brisé) un ripieno squisito giusto per divertirmi a creare l’involucro. È il caso di questa sfoglia che trovo molto primaverile, adatta anche al pranzo di Pasqua, se vi piace l’idea di servire una focaccia o una crostata di verdure come antipasto.

20140302-220506.jpg Si mondano, si affettano e si fanno saltare con olio, prezzemolo e aglio 300 gr di funghetti coltivati di qualità cremini, piccoli e sodi. Si aggiustano di sale e pepe e si lasciano raffreddare.
Si tagliano a tocchetti 4 salsicce luganeghe e si rosolano in padella con alcune foglie di salvia, che poi si eliminano, e una spruzzata di vino bianco.
Si affettano 4 bei pomodori ramati, maturi ma sodi e si appoggiano su una teglia coperta di carta forno. Si cospargono con una miscela di pangrattato, origano, prezzemolo tritato, sale e pepe e si fanno asciugare in forno a 200 gradi per pochi minuti.
Si rassodano per 4 minuti 12 uova di quaglia (1 confezione), si raffreddano e si sgusciano con delicatezza.
Si prepara una fonduta con 50 ml di panna e 250 gr di formaggio emmental grattugiato, si insaporisce con una grattata di noce moscata e fuori dal fuoco si aggiungono un tuorlo e 2 cucchiaiate abbondanti di grana grattugiato.
Gli ingredienti per il ripieno ci sono tutti.
Si fodera una tortiera imburrata con un disco di pasta sfoglia facendola debordare. Si bucherella con una forchetta e si stendono sul fondo 100 gr di mortadella di Bologna a fette sottili, o se preferite di prosciutto cotto, sopra si rovesciano i funghi trifolati.
Si distribuiscono con cura e si aggiungono le salsicce e le uova di quaglia su tutta la superficie.
Si completa con le fette di pomodoro sgocciolate e su tutto si versa la fonduta.
Si copre con un secondo disco di pasta sfoglia, si sigillano bene i bordi ripiegandoli e pizzicandoli. Si pratica un foro (camino) al centro e si introduce un piccolo cilindro di carta forno per permettere al vapore di uscire.
Il foro si può poi mascherare aggiungendo piccole decorazioni primaverili ottenute utilizzando la pasta in eccesso che è stata ritagliata intorno alla tortiera.
Si spennella tutto con uovo e latte miscelati e si inforna a 180 gradi per 35-40 minuti, finché la superficie risulta dorata e la cucina si è riempita di profumi!

Ecco, questo lo trovo un modo divertente, coreografico e gustosissimo per offrire una torta salata, che in genere non è proprio fra i miei piatti preferiti. Comunque una volta tanto bisogna uscire dalle abitudini e rinnovarsi!

Il cappone alla Gonzaga

Questo piatto, che servo come sofisticato antipasto, può apparire ingannevolmente banale perché, appartenendo alla categoria del pollame bollito, sembrerebbe proprio adatto ad una cena leggera, con ospiti di mezza età come in genere sono i miei, in quanto più o meno nostri coetanei.
Impressione sbagliatissima: l’insalata di Cappone alla Gonzaga è piuttosto complessa, decisamente raffinata, molto “gourmand” e perfino storica.
È frutto infatti della fantasia e dell’abilità di Bartolomeo Stefani, cuoco alla corte dei Duchi di Mantova intorno alla metà del 1600.
È proprio per queste sue nobili origini Rinascimentali dunque e perché è in qualche modo legato ai miei ricordi d’infanzia, che riservo questo insolito e sontuoso antipasto a poche persone che mi stanno particolarmente a cuore: non è un piatto che preparo per tutti…

Il giorno precedente a quello in cui si intende servire il piatto, si lessano 2 petti di cappone (o eccezionalmente di pollo) con sedano e carota, 1 foglia di alloro e 1 piccola cipolla steccata con 2 chiodi di garofano con tanta acqua salata quanta ne occorre per coprirli.
A cottura ultimata si lasciano raffreddare nel loro brodo, che servirà per esempio per cuocere i cappelletti da servire come primo piatto.
Nel frattempo si fanno rinvenire 50 gr di uvetta sultanina in 1/2 bicchiere di vino bianco tiepido con 1 cucchiaino di zucchero.
Si sgocciolano i petti di cappone e pazientemente e con molta cura si sfilacciano con le dita e si lasciano cadere in una terrina.

20140203-015539.jpgSi condiscono con un’emulsione di olio, succo e buccia grattugiata di 1 limone biologico, si aggiusta di sale e pepe e si aggiungono le uvette con tutto il vino eventualmente rimasto nella ciotolina in cui si sono fatte rinvenire.
Si mescola con delicatezza sollevando i filetti di cappone con due forchette e facendoli ricadere nella terrina perché non si ammucchino, o meglio si usano le mani che per condire e rimestare le insalate sono uno strumento non solo adatto, ma perfetto.
Si copre con la pellicola e si conserva in frigorifero per almeno 6-8 ore perché tutti i sapori si amalgamino.
Si serve con piccole ciotole individuali di mostarda Mantovana e un ultimo filo d’olio.
Volendo esagerare, per continuare a creare l’illusione del sontuoso desco rinascimentale dei Duchi di Mantova si può far seguire all’insalata di cappone il “sorbir d’agnoli”: cappelletti cotti nel brodo di cappone e serviti in tazza con un abbondante sorso di vino Lambrusco.

Il Cappone alla Gonzaga l’ho assaggiata per la prima volta a casa di quei cugini del mio papà di cui parlo nel Capitolo 11 del mio libro, quello in cui accenno a mia nonna Emma, al suo strano condimento per gli gnocchi di patate che ho postato il 2 febbraio, al profumo della frutta messa a seccare nel “tinello” in cui si pranzava, ad una stupenda bambola di porcellana, al vino Clinto e al sugo d’anatra.
Ecco, anche oggi ho creato un’altra occasione per dividere ricette e ricordi con le persone amiche.
Quando non ne potete più, me lo dite, vero?

I bocconotti

Mi si dice che i bocconotti altro non sono che la versione mignon della torta pasticciotto.
Lo dico con beneficio d’inventario, perché questo dolce non appartiene alla nostra tradizione, ma qualche amico blogger Salentino lo potrà cortesemente confermare.
Personalmente preferisco la versione che vi propongo oggi, mono dose, perché così ogni dolcetto nella sua classica forma di tortina ovale, è una deliziosa porzione di crema racchiusa in un dolce scrigno.
La versatilità della pasta frolla ancora una volta si rivela straordinaria nella preparazione dei dolci.
Ho già detto anche il 19 novembre scorso (quando ho postato le Frolline di Santa Lucia della Luisa Anna) che a seconda di come si utilizza, la ricetta della frolla è leggermente differente.

20140223-190545.jpgPer questi bocconotti o pasticciotti ho utilizzato una pasta frolla realizzata con 220 gr di farina, 120 gr di burro, 70 gr di zucchero, 1 uovo e 1 pizzico di sale.
Ho impastato tutto e riposto in frigorifero per almeno mezz’ora.
Nel frattempo ho preparato la crema nel solito modo con 30 gr di farina, 2 tuorli, 300 ml di latte, 100 gr di zucchero.
Una volta cotta l’ho versata in una ciotola e l’ho fatta raffreddare con sopra la pellicola trasparente proprio a contatto, così non si forma quell’antipatica pellicina.
Ho tirato con il mattarello metà dalla pasta frolla e ho foderato gli stampini da muffin, li ho riempiti di crema ormai quasi fredda, al centro ho messo 1 amarena sciroppata e li ho coperti con altri dischetti ottenuti tirando il resto della pasta frolla.
Ho sigillato bene i bordi e infornato a 170 gradi per 25 minuti.
Li ho poi sfornati, lasciati intiepidire, sformati e serviti con alcuni frutti di bosco e 1 cucchiaio di marmellata di amarene, il tutto spolverizzato di zucchero a velo.

Lo so, la forma originale dei pasticciotti è ovale, ma uno stampo multiplo da muffin è molto più pratico.
E poi sono di una bontà tale che giurerei che nessuno si lamenterà perché non è stata rispettata la tradizione!

1 marzo 1947/2014

20140228-183413.jpgOggi è il mio compleanno e voglio essere io a farvi un regalo.
Non la solita ricetta, ma una ricetta chic, adatta ad una ricorrenza e accompagnata da un intero capitolo del mio libro “I tempi andati e i tempi di cottura (con qualche divagazione)” e spero sia un regalo gradito e vi faccia venire voglia di leggere anche il resto…

“SHOPPING A SAINT TROPEZ
Confesso di essere una di quelle donne che fanno acquisti compulsivi, ma chi non lo è?
Una volta, quando ero depressa, annoiata o mi sentivo euforica o insicura compravo scarpe; ma era perché il negozio di fronte al mio era una Monomarca di calzature, che dalle mie vetrine si vedevano benissimo, così tra un cliente e l’altro in tre passi ero dall’altra parte della strada e nel tempo che avrei impiegato a bere un caffè, ecco che mi gratificavo con un terapeutico paio di scarpe nuove.
Quando ho venduto il negozio la storia è finita lì. Con le scarpe. Adesso compro in modo compulsivo accessori per la cucina e per la tavola.
È una scelta come un’altra, di cui in genere non mi pento mai, anche se a dire il vero qualche volta ho provato un po’ di rimorso, come quella volta a Saint Tropez.
Non si è trattato solo di lacrime di coccodrillo per aver speso una piccola fortuna in futilità, ma di qualcosa di più. Adesso vi racconto la storia.
Fino a qualche anno fa, passavamo la prima settimana di settembre a Juan les Pins e il rituale giornaliero era grosso modo sempre lo stesso: consisteva nel restare in spiaggia tutta la mattina, pranzare bord de mére, praticamente pieds dans l’eau e dopo un riposino giusto per digerire, passare il pomeriggio zonzonando ogni volta in una località diversa della Costa Azzurra o della Provenza, dove ci fermavamo anche a cena.
Quella volta, era in programma Saint Tropez, ma raggiungerlo è stato un vero inferno per via del traffico – ore di coda e chilometri di auto in fila – ma non siamo mica tornati indietro, eh no, perché noi in fatto di bazzecole siamo molto pragmatici!
Comunque finalmente arriviamo, non senza aver prima insultato semafori, guidatori Francesi e democraticamente anche di altre nazionalità, segnali stradali, tutta la Costa Azzurra in generale e il tratto che stavamo percorrendo in particolare.
La cittadina è proprio chic: comodo parcheggio a pagamento, lungomare con elegantissimi yacht e pittori ispirati e creativi, signorili caffè all’aperto, boutique con marchi prestigiosi, creature di entrambi i sessi deliziosamente intente a guardarsi intorno con nonchalance per essere certe che le hai notate.
Do un’occhiatina svogliata alle vetrine, più per compiacere mio marito che per vero interesse verso i negozi di abbigliamento, dato che nessuno tiene la mia attuale taglia se non Marina Rinaldi, che naturalmente a Saint Tropez è fuori legge e poi ci si inoltra in Rue Gambetta, perpendicolare al porto.
Come guidata da un istinto primordiale, un richiamo atavico, sicura come un salmone che risale la corrente, mi dirigo subito verso un negozio sulla sinistra, un po’ buio, di cui non ho nemmeno visto l’insegna, giuro, e lì … eccoli!
Accatastati, ammucchiati, affastellati, raggruppati, impilati, abbandonati qua e là in un folle disordine organizzato, ci sono centinaia di oggetti di porcellana bianca, come quelli del vecchio negozio della Rosanna, ma di più, di ogni forma, prezzo e misura, da forno e non, alcuni in realtà grigi di polvere, ma non conta, tanto li laveresti comunque.
Erano così fantasiosi, imprevedibilmente necessari, banali o insoliti a scelta, da non poter resistere!
Io non mi ci sono neanche provata a resistere, naturalmente e ho comprato vaschette quadrate abbinate a cucchiaini con un forellino sul manico, come se si dovessero appendere, pirofiline individuali, due mortai di misure diverse coi loro pestelli, stampi da terrine, ognuno con il coperchio sormontato da una testa di animale: cinghiale, lepre, anatra e maialino.
E poi non so cos’altro. Magari però se lo ricorda il mio eccezionale marito, che si è trascinato tutti i miei acquisti in due borsoni di plastica pesante – rigorosamente bianchi – attraverso chilometri di viuzze, poi al ristorante e di nuovo sul lungomare fino al parcheggio, mentre intorno a lui altri più fortunati consorti reggevano disinvoltamente sacchettini griffati decisamente molto più leggeri.
Adesso vorrete sapere come utilizzo le vaschette quadrate, vero? Con differenti tipi di miele, oppure di mostarda, di confettura o marmellata o con granelle diverse di frutta secca e nel forellino del manico di ciascun cucchiaino infilo una cordicella (va bene anche lo spago per legare l’arrosto) e attacco un cartellino con l’indicazione del contenuto della vaschetta a cui è destinato, se no finisce che me lo scordo anch’io.
Naturalmente la mia fantasia e l’impegno muscolare di mio marito, meritano lo sforzo di preparare una cena alla Francese.
Se proprio non sono in vena, mi limito a mettere in tavola un un gran piatto di formaggi, questi non necessariamente Francesi, proprio bello grande, per giustificare almeno l’acquisto (ed il trasporto) delle vaschette quadrate.
La cucina Francese secondo alcuni è sopravvalutata, ma io la trovo interessante (piuttosto trovo sopravvalutati i Francesi) e mi piace misurarmi ogni tanto con qualche piatto transalpino di sicuro effetto e di gusto insolito ma non troppo particolare.
Leggendo tutto il libro troverete un sacco di ricette vagamente galliche un po’ dappertutto.
Fossi in voi qualcuna la proverei, fanno sempre un figurone perché esulano decisamente dalle nostre abitudini culinarie e finiscono con l’incuriosire gli ospiti.
Quindi, pourquoi pas?

TERRINA CAMPAGNOLA
150 gr di lardo affettato sottile
400 gr di polpa di maiale macinata due volte
200 gr di prosciutto affumicato ( tipo Praga ) a fette
1 uovo
1 tartufo medio ( o 2 piccoli )
aglio, prezzemolo, sale e pepe

Fodero con il lardo uno stampo di porcellana da forno lasciando debordare le fette.
Con le mani inumidite mescolo il macinato con l’uovo, 1/2 spicchio d’aglio, oppure uno intero se lo preferite e lo digerite, ridotto a crema, un cucchiaio di prezzemolo tritato, sale e pepe.
Divido questo impasto in tre parti. La prima la sistemo sul fondo dello stampo sopra il lardo, la livello e la copro con metà del prosciutto e metà del tartufo affettato. Sopra spalmo un altro terzo di impasto premendo bene per non lasciare vuoti e copro col restante prosciutto e le fettine di tartufo.
Completo con l’ultimo terzo di impasto e batto ripetutamente lo stampo sul tavolo (coperto con un canovaccio mi raccomando perché è di porcellana e mio marito non torna più a Saint Tropez a comprarne un altro se si rompe), ripiego sopra le fettine di lardo che avevo lasciato debordare, incoperchio e inforno a 180° per circa un’ora e mezza.
Poi lo lascio raffreddare nel forno spento e lo passo in frigorifero per almeno 6-8 ore prima di servirlo.
Un’ultima cosa: per rendere ancora più rustica questa terrina si può sostituire il prosciutto con la porchetta al forno.
Per questa ricetta uso lo stampo con la testa di cinghiale, ma va bene anche quello col maialino, oppure un foglio di alluminio su una semplice cocotte, se non avete ancora visitato Saint Tropez…”

Felice giornata a tutti, un abbraccio e buon mese di marzo!